^ ^ r y * ' 1 V l t Q a - h h . ft'B^S-Tlì1 p ; F. DE A N G E L I S S. GREGORIO VII. C E N N I E R I F L E S S I O N I I s T E I j I J ' V i l i O B I T T E N A R I O 25 M A G G I O 1885. A cura della Federazione Piana delle Società Cattoliche in Roma. ROMA T I P O G R A F I A A. B E F A N I Via Celsa 6, 7, 8 1885 S. GREGORIO VII. F. DE A N G E L I S GREGORIO VII C E N N I E R I F L E S S I O N I N E L L ' V i l i G B I T T E I T A R I O 25 M A G G I O I88J. A cura della Federazione Piana delle Società Cattoliche in Roma. R O M A T I P O G R A F I A A. B E F A N I Via Celsa 6, 7, g 1885 Lume non è, se non vien dal Sereno, Che non si turba mai PARADISO X I X , 64. L E missione degli uomini veramente grandi, di dare principio a nuove età.1 Privilegio a pochi concesso dalla storia, che annovera fra essi Gregorio V I I : grandezza aiutata dall' epoca in cui vissero, non meno degna di gloria per questo. I popoli sofferenti da tre secoli; gli ecclesiastici, guida dei popoli, corrotti, in Italia come altrove, per influsso dell'impero e per contatto del feudalesimo. Si iniziò l'opera di un risorgimento materiale e morale per mezzo di un Papa; per l'opera medesima condotta a fine; grandissimo. Grandezza non nau- fragante mai, in cento battaglie, in cento insidie che minacciavano anche la vita di quel solitario che combatteva. Sciolta la Chiesa e l'Italia dalla egemonia dell' impero, sorse, come germoglio di quella impresa papale il compimento della c o - stituzione dei comuni Italiani, il loro governo consolare. Età g lo- riosa, se altra fu mai; età invocata in tutti i ditirambi di oggi, quando accennano di lasciare il tono bacchico, per tentare di essere lirici. E vero però che i poeti, inneggianti a quell' epoca, in faccia all'udi- torio, dimenticano, o per mala fede, o per monca istruzione storica * Cesare Balbo, Sommario della Storia d'Italia. Firenze Le-Monnier. — 6 — di risalire alle origini donde scaturirono i comuni, per non risalire al papato. Ma chi, per il primo, scosse il g iogo Imperiale se non G r e - gorio VII , meritevole del nome-di grande, anche nel senso il più liberale, della parola? Queste le condizioni di allora, questo l 'esordio del suo pon- tificato. IL L ' incenso bruciato ai funerali di Alessandro II ardeva ancora nei turiboli, quando le volte di San Pietro in Vinculis echeggiavano dell' applauso, non potuto frenare,, con cui il popolo salutava l 'arci- diacono Ildebrando, eletto Papa sotto il nome di Gregorio V I I ai 22 di aprile del 1073. E pareva quell' applauso, circondante di au- reola luminosa il nuovo Pontefice, suonare per lui dolorosamente. Atterrito da tanta dignità che lo aspettava, malgrado quella che tutti riconoscevano in lui, mirabile forza di volontà e di mente, contemplò con profondo dolore la sua elezione, salutata da tanta letizia di popolo, cui la santità della casa di Dio non seppe vietare le rumorose espansioni del cuore. Tentati tutti i mezzi per allontanare quello che egli chiamava calice doloroso, scrisse a Enrico IV di Germania, cui restava ancora il privilegio di consentire alle elezioni del Papa, affinchè non 1' ap- provasse. III. L a mirabile forza di volontà e di mente, cui accennammo al cominciare di queste poche pagini, appariscono fino nella infanzia di Ildebrando inconscio del proprio avvenire. Suo padre era un falegname di Soana, in terra di Toscani : i primi suoi anni passarono oscuri nella bottega, fra 1' aspro novi- ziato dell' arte manuale, in mezzo ai ferri e alla segatura di legno, — 7 — e su questa, tracciando le prime lettere dell' alfabeto, con profezia precocissima, dicono scrivesse: Ipse dominabitur a mari usque ad mare. Ma P ingegno del fanciullo, decise il padre, di toglierlo a quelle umili occupazioni, per avviarlo verso gli studi, che dovevano con- durlo, malgrado 1' origine oscura, allo splendore del trono. I democratici moderni che spargono ai quattro venti le onde sonore dei loro paroloni livellatori, che cosa dicono di questa pe- renne democrazia della Chiesa? In un monastero, sul monte Aventino, il fanciullo cominciò gli studi severi, cui la fermezza del proposito piegava la focosa impa- zienza della età. Suo maestro fu Giovanni Graziano, Papa alcuni anni dopo, sotto il nome di Gregorio VI. Nel 1046, rinunziati gli onori troppo gravi per lui, questi corse a rifugiare la sua umiltà nei s o - litari silenzi della Abazia di Cluny in Borgogna, dove lo accompagnò Ildebrando, desideroso di abbracciarvi la vita religiosa. E di quella Abazia, quando la virtù e la scienza fecero dell' antico falegname un uomo di cui si parlava come di prodigio vivente, fu eletto priore. A lui traevano per consiglio i potenti della terra ed Enrico III di Germania lo volle per maestro di suo figlio, che sotto il nome di Enrico I V doveva lottare acerbamente con l'antico precettore e poi pellegrinando aspramente sulla neve, tremare dinnanzi alla sua se- vera maestà. Nè questo gli toglieva fino da allora di combattere in favore della Chiesa di cui doveva più tardi essere capo; sembrando prepararsi alla lotta, come guerriero, per dirigerla poi come capi- tano. Intanto la porpora cardinalizia lo veniva preparando ai più alti onori, benché a malincuore accettasse i primi, e solamente, co- stretto, subisse il peso dei secondi. IV . Enrico I V confermò 1' elezione, chiudendo alla umiltà desolata del nuovo eletto, ogni pretesto per un rifiuto. Fu cosi che la sua consecrazione ebbe luogo ai 30 di Giugno, mentre egli, malgrado i suoi sessant' anni, conservava la verde e robusta energia della g i o - vinezza; energia che l ' imminenza di tanti avvenimenti doveva met- tere alla prova. Ma, perchè quella angustia ritrosa e quello spavento nell'animo saldo contro le fortune varie della vita? Erano venticinque anni, dacché egli, gettando lo sguardo pe- netrante sulla vastità del mondo cattolico, scorgeva molta oscurità di tempesta, addensarsi sopra la Chiesa, minacciandola. Da una parte, erano scandali, ambizione, avarizia e simonia: dall'altra, cor- ruttela ed empietà di principi: rimedio, unico per tanti mali, la necessità di una repressione ferrea. Il suo pontificato gli appariva come una lotta lunga. Capo di quella Chiesa che doveva essere militante ; la sua voce gli avrebbe chiamato addosso 1* ira dei grandi e l'inimicizia o clamorosa o sorda di tutti quelli, cui rimproverava i traviamenti o la cecità della vita colpevole. L a via però, benché irta di pericoli, lunga e ardua, appariva dinnanzi a lui, come invitandolo a percorrerla, ed egli vi si incam- minò; egli, vecchio e solo, sfidando gli agguati tesi neh' ombra o gli ostacoli innalzati contro di lui, sotto la luce piena del sole. C o - raggio questo del solitario ardimentoso, coperto inutilmente dai suoi nemici, o col silenzio o colla calunnia. V . E diede la prima battaglia, contro la depravazione del clero, conseguenza delle investiture. L 'anno dopo la sua consecrazione, nel 1074 cioè, tenne un concilio in cui vietò di comprare o di ven- dere qualunque impiego ; interdisse ogni funzione ai chierici o si- moniaci o concubinari, obbligandoli ad abbandonare il ministero, o a serbare continenza perfetta, mentre ai fedeli proibiva di assistere agli uffici dei preti o riluttanti o perseveranti nella colpa. Allora, un grido si sollevò, subito represso. Era quello dei col- — 9 — pevoli, insorti contro le decisioni del concilio, contro i decreti com- battenti l'incontinenza e l'ambizione. Ma nel tempo stesso la dignità della Chiesa fiammeggiava luminosamente : le stole candide scintil- lavano sotto il sole novo e l 'osanna sonoro levantesi lietamente al cielo, soffocava il clamore dei vinti. Fu quel primo trionfo che dettò a Michelet queste parole : « Sarebbe stato finito pel cristianesimo, se la Chiesa, diventata voi- « gare pel matrimonio, si fosse materialiigata nelle eredità feudali. Una « tal Chiesa non avrebbe prodotto mai ni l'anima di S. Bernardo, ni « il genio penetrante di S. Tommaso. » Nè la battaglia fu vinta così facilmente. Mosso dai concubinarii e dai simoniaci, Crescenzio o Cencio, — un'eroe che aspetta anch'esso una statua, dalla generosità dei moderni dispensatori di gloria — rapì, armata mano, il papa all'al- tare, in Santa Maria Maggiore, mentre la notte di Natale celebrava la méssa: lo„chiuse in una torre, ma prima di giorno, Gregorio fu liberato, per furia combattente di popolo. Al Pontefice, sembrò quella prima tempesta crescere ardimento e perchè le investiture, altro non erano che feconda causa di male, le fulminò, spezzando il vincolo che tendeva a infeudare la Chiesa. Urlarono i regnanti anche essi, ma l'urlo venne a frangersi contro, la irremovibile fermezza del Papa, il quale, come un vincitore cui non bastano le prime vittorie, aspettava altre lotte, mentre intorno a lui tumultuava grande fermento di ribelli. Ai suoi nemici giunse come una speranza, la novella che egli era caduto infermo, speranza recisa in fiore, giunta appena fino a loro per cambiarsi in timore, poiché il vecchio, nella malattia scom- parsa aveva trovato forze più giovani. E prima che si dessero le nuove battaglie, profittò della tregua brevissima per fare una riforma più pacifica; la riforma della liturgia, determinandone più validamente l'unità, semplificandola coll'addat- tarla con più perfezione a tutta la Chiesa. E questa riforma era un legame che doveva stringere a lui i suoi fedeli, pronti alla lotta, mentre le minaccie di guerra apparivano, nuove e formidabili, da — IO —* ogni parte, mentre gli avversari cercavano anche essi di stringersi 1' uno all'altro. VI . Concubinato e simonia di chierici ! Su queste due piaghe, corsero fiumi di eloquenza e i filosofi della scuola di oggi, invece di trovarvi un argomento di più in fa- vore della saldezza della Chiesa; cercarono scoprirvi la giustifica- zione del loro ateismo. Perchè una parte del clero era o simoniaco o concubinario essi ne dedussero che la religione era malata, falsa, cadente; poiché, dicevano, dove si manifestano le fralezze dell'uomo, colà, abita la morte. Nella foga della eloquenza, nel lirismo entusiasta e sonoro, co- persero tutta la Chiesa, di quella lebbra, ridendo del Papa, costretto a lanciare anatemi, contro i peccati dei propri ministri. E con stile 0 ironico o grave, ingiurioso spesso, si stamparono libri su questo argomento e si scrissero bollenti inni di vittoria, o canti funerari per le prossime esequie -del cattolicismo moribondo. In un amalgama astutamente elaborato si volle fondere la materia collo spirito, l 'e- terno col caducò, le fralezze dell'uomo colla immutabilità di Dio, come se potesse una istituzione divina essere contaminata dalle colpe terrene. Si copersero con un velo colpevolmente pietoso, le enor- mità dei principi e lo schiamazzo delle orgie banchettanti coi r e ; 1 vituperi commessi sotto il baldacchino dei troni, che tentennavano, scossi dalle stupefacienti enormità dei regnanti, e si riversò tutta quella immensa onda di delitti sopra la Chiesa; additandola come unica e grandissima rea. Né si volle mai comprendere, e molto meno confessare l'incorruttibile prestigio del papato che fulminava vittoriosamente tutto ciò che invano aveva tentato oscurarne la im- macolata santità, vincitrice malgrado le colpe parziali di qualcuno fra i suoi ministri ; del papato che dopo ogni lotta appariva più mae- stoso' sopra la miseria agonizzante dei vinti. Vinti che non seppero mai esser grandi altrove che nei pane- • n — girici contradetti dalla storia, giusta dispensiera di gloria, come la morte. Già lo accennammo, e ci conviene ripeterlo. L a dipendenza temporanea dei Papi dall 'impero, la schiavitù di quelli per il dominio di questo, oltre ai mali gravissimi di o r - dine diverso, non recò forse la corruzione- onde i laici erano pieni; nel seno della Chiesa, che stretta dal dominio dei feudatari, doveva ammalarsi di quella epidemia, poiché i chierici erano uomini anche essi ; epidemia di cui tutte le corti o splendide o povere erano ma- late;'epidemia di cui i germi stavano nell'avarizia o nel libertinaggio? Siate meno poeti, e più coscienziosi' nello studio delle pagine storiche di quei tempi e guardate se il fango non fu lanciato, allora come sempre, dai potenti del secolo. Per nascondere la colossale figura di Gregorio V I I si eresse tutto un edificio cementato, dalla calunnia, facendo però opera si- mile a quella tentata nei pomeriggi invernali da una turba loquace di fanciulli, che colla neve caduta nelle notti gelate fabbricano statue o figure. Il sole, velato di nubi, vi scherza un'istante, dipingendola di fugaci colori, poi sdegnato di illuminare tanta fragilità, fendendo le nebbie, vi lascia cadere un raggio, e cambia l'edificio in una pozzanghera immonda. VII . Ma è tempo di seguire gli avvenimenti. Torbido era l'atteggiamento dell'Europa in generale, nè al Papa mancavano ragioni di profonda mestizia. Non entra però nel nostro proposito il trattenerci a narrarle tutte — compito troppo lungo per questo riassunto cortissimo, — contenti a registrare i grandi fatti compiuti, le grandissime lotte. Lasciamo la Francia, dove regnava Filippo I, contristatore dell i Chiesa, per le spudorate simonie, la Spagna dove la sciìnitarra degli infedeli spargeva sangue e terrore, la Russia dilaniata da fosche turbolenze, l'Ungheria, campo vasto e propizio per le guerre civili — 12 — che vi ardevano, e fermiamoci in Germania, dove più vivo crepi- tava il fuoco della ribellione e in faccia alla veneranda canizie di Gregorio, contempliamo la giovinezza criminosa di Enrico IV. Dichiarato questi maggiorenne a quindici anni, subito le due principali passioni che lo dominavano, l'avarizia e la libidine, ap- parvero; sciolte dal freno della tutela materna, in tutta la loro foga libera ormai. E "in quella corsa sfrenata degli eccessi pensati e compiuti gli galoppavano a fianco — mi si perdoni la frase — i cortigiani di tutte le grandezze. L o chiamarono il Nerone della Germania e Cesare Balbo lo definisce « pessimo degli imperatori e re ghibellini. » 1 L'albergo delle sue dissolutezze non erano soltanto i suoi pa- lazzi, ma le stesse case private; non le estranee unicamente, ma le persone ancora aventi con lui comune il sangue. Stanco di Berta da Susa, sua moglie, virtuosissima e indarno piangente sul talamo deserto, ordì, per cacciarla la più raffinata in- famia, con un agguato che non gli riuscì, ma si volse contro di lui. Indusse cioè uno dei compagni assidui delle sue orgie a sedurla. Questi, allegando motivi gravissimi di pubblica utilità e caute co- municazioni sopra affari di Stato, su cui era necessario consigliare prudenza ad Enrico, credette avere ottenuto un colloquio segreto e ne avvertì il re, allegro di vedere compiersi il suo desiderio de- corosissimo! Berta però, si era accorta che, sotto alle ragioni ad- dotte dal cortigiano, si tramava una perfidia, e, fatti nascondere, nelle fidate tenebre, alcuni servi ordinava un castigo che servisse di esempio a quella audacia invereconda. Invece del cortigiano venne Enrico, pronto a fulminare l'infedeltà della moglie : i servi però picchiarono nerborutamente, e solo, alla voce della vittima, si ac- corsero dello sbaglio. Prodezza coniugale che basta per dipingere l'uomo ! 1 Sommario della Storia d'Italia pag. 160. — Firenze, Le-Monnier . V i l i . Principiava l'anno 1076, e fresca era ancora la congiura di Crescenzio. Gregorio, conosciute le trame di Enrico I V , con una lettera in cui lo stile energico ritrae lo scrittore, gli rimproverava che « mentre scriveva con tutta umiltà operasse da nemico, combattendo la sempiterna autorità della Chiesa. D'altronde che Enrico IV covasse vecchi rancori contro l'Ar- cidiacono Ildebrando, ne abbiamo prova nella lotta iniziata dal primo contro il secondo, quando Anselmo, vescovo di Lucca fu assunto al pontificato, sotto il nome di Alessandro II. In. quella elezione, per opera specialmente, di Ildebrando, la Chiesa iniziò la sua indi- pendenza, e l'Arcidiacono, saputo che il re di Germania, per non riconoscere il vescovo lucchese, a v e v a fomentato l'elezione illegale dell'anti-papa Cadolao, fu l'autore della alleanza fra la Santa Sede e la contessa Beatrice, madre di quella Matilde, di cui diremo bre-r vissimamente; alleanza che vinse i soldati dell'anti-pontefice. Il monarca alemanno, aveva allora sconfitto i Sassoni ribella- tisi e il padre dei fedeli terminava la lettera, cui sopra accennammo, raccomandando la moderazione coi vinti. Moderazione sconosciuta al cuore di Enrico che conosceva invece gli eccessi di ogni cru- deltà, e tanto, che uno straziante grido di dolore venne, in luogo di una risposta del re, dalla Sassonia remota, fino ai piedi del trono papale. I lamenti dei Sassoni furono accolti e il Papa minacciò Enrico di separarlo dalla Chiesa, non cessando dalla tirannia sopra i sud- diti vinti e non liberando ( subito i vescovi gementi nello squallore delle carceri. Enrico non rispose, ma spedì corrieri in tutte le Pro- vincie del regno, convocando a W o r m s i suoi partigiani. Vi cor- sero tutti quelli che le riforme avevano colpito negli scandali della loro vita privata, e perchè i scandali erano molti, molti furono i convenuti. Questo fu il principio di quella lotta memorabile. — 14 — A W o r m s i signori feudali e gli ecclesiastici, inquietati nei loro vizi, annullano l'elezione di Gregorio e rivestendosi di ridicola ma- schera di potere, lo scomunicano. Dicemmo ridicola; dovevamo aver detto sacrilega. Un messo imperiale scende a Roma, cercando proseliti, portatore della sfida e degli atti sanciti nella congrega, e mentre Gregorio teneva Sinodo in Laterano, entra, osando inti- margli di rinunziare al papato. Intimazione che gli avrebbe costato subito la vita se il pontefice cui il coraggio personale non era una virtù ignota, non lo avesse salvato, facendogli scudo col proprio corpo. Grande era il delitto, grande doveva essere la pena, e la inter- dizione fu lanciata sul capo di Enrico. Rispose a questo castigo un lungo pellegrinaggio avviantesi a Roma, di .vescovi , di grandi e di nobili, che abbandonavano il re, correndo verso il perdono del Papa: manifesta conferma della collera pontificale furono castighi tali, innanzi a cui impallidivano gli spiriti forti. — Infatti troviamo che il vescovo di Utrecht ribelle al papa fu colto da apoplessia fulminante mentre rideva della scomunica, quello di Misnia si spezzò il cranio cadendo da cavallo, quello di Zeitz, affogò, guadando un fiume, quello di Spira mori improvvisamente. E ci sembra che, per un esempio, basti. I Sassoni intanto si ribellano nuovamente ad Enrico, benché il Papa predicasse a loro di essere paziehti — forse con magnanimità eccessiva — e, cogli Svevi, radunati a Triburia, trattano, niente- meno, di eleggere un nuovo re. Si numerano dall'Assemblea, com- mentandoli, i delitti di Enrico, che invano cerca placarli, cedendo, promettendo, donando. La Dieta seguita la fosca inchiesta e invita il Papa ad Augsburg, per assistere a un nuovo congresso di cui a lui riserbavano la presidenza. Egli si avvia con Matilde di Canossa, alleata del capo della Chiesa, fedelissima sempre, più ancora nei momenti difficili, ed ambedue giungono a Vercelli. Ma dalla Ger- mania, quasi solo, — i cortigiani si dileguavano — Enrico scende in Italia, appena sà che Gregorio aveva tenuto l'invito di quelli che volevano deporre lui. Berta, dispregiata ai dolci di, invocata in quelli — i j — amari del decadimento, con preghiere che parvero viltà, lo accom- pagna. Il Pontefice rifacendo una parte del viaggio, retrocede a Ca- nossa, dove Enrico s'avvia, pronto alle scuse — quanto sincere lo dica la storia — come era stato pronto alle offese. Antitesi questa tra la dignità e l'umiliazione che fa più vivo il paragone tra il Papa imperterrito e il re costretto ad una umi- liazione, che, dopo otto secoli, .¿»vano si vorrebbe cancellare da molti. IX. Sulla sponda destra dell 'Enza, fra Parma e Reggio, si vedono ruderi scuri di grosse mura. L e piante silvestri coprono, abbraccian- dole, le rovine che furono un giorno il castello di Canossa, ospitale dimora di Matilde, la grande contessa, che vi ricevette il Pontefice; scrivendo la sua, accanto alla gloria di Gregorio VII. Si era alla fine di Gennaio del 1077, quando vi arrivò, non come re, ma come grande colpevole supplicante, Enrico I V di Ger- mania: tre giorni attese, fra le aspre inclemenze dell 'inverno rigi- dissimo, prima di essere ammesso alla presenza del Papa, che il quarto dì, accondiscese a un colloquio. L a severità cedette alla clemenza che pronunziò parole di perdono. I Sassoni però erano esasperati; nè il Santo Padre poteva ricollocare il re sul trono, se non si- fosse questi recato ad Augsburg per giustificarsi. E giurò che vi andrebbe. Allora, per le sale del Castello, splendenti di oro e di magnificenza, sembrò aleggiasse la pace prima di stendere il volo ampio dall' Italia alla Germania. Il Papa celebrò la messa, e, prima della comunione, fatto ac- costare Enrico all'altare, solennemente porse a lui la metà dell'Ostia consacrata, dicendogli : « Se il tuo cuore é innocente, sventa con questa prova le accuse, poiché Dio non può fallire, ma se ti senti reo, non ri- cevere la tua condanna. » Enrico si sottrasse alla prova, allegando che non essendo pre- senti i suoi accusatori, desiderava rimetterla pel giorno della sua di- fesa, innanzi alla Dieta di Augsburg e partì. Nel castello, al banchetto, fu osservato un posto vuoto. Era quello del re che non aveva osato sedere alla pacifica agape del Sacerdote. X . Stringiamo in un rapido cenno i fatti che tennero dietro alle promesse di Enrico. Partito da Canossa, fu accolto in Germania, con timore n o , ma con disprezzo, poi con pietà, finalmente con esecrazione, quando un'altra volta, calpestando la sua parola di re, si ribella al Papa. Allora i Sassoni eleggono Sovrano Rodolfo di Svevia e ne segue una lotta sanguinosa fra i due, che scordano di essere cognati, per rammentarsi di essere rivali: rivalità che terminò colla scomunica recata ad Enrico dai coraggiosi legati di Roma, e colla conferma della sovranità di Rodolfo, fatta dal Pontefice, applaudita dal popolo. A Brixen il re deposto aduna i suoi, elegge antipapa Giliberto, scomunicato vescovo di Ravenna, e comincia la guerra più accanita che mai in Italia contro le schiere di Matilde, in Alemagna contro quelle di Rodolfo. La vittoria sorride allo spergiuro e due sconfitte pesano sugli alleati del Papa; una nel Mantovano, una in Germania. Correva il 1081 ed Enrico scende in Italia e si accampa in faccia a Firenze anti-imperiale, eroica. Firenze lo respinge, e, tentata in- vano la presa di Roma, sverna a Ravenna, per tornare, senza pren- derla ancora, dinnanzi alla città eterna. Ritenta il terzo anno l ' as - sedio e vi entra : fa coronare Giliberto anti-papa e se medesimo, e stringe Gregorio, difeso da un pugno di fidi, dentro Castel S. An- gelo. Egli si abbandona intanto alle ebbrezze dissolute di un trionfo non ancora completo, poiché il Papa resiste. Improvvisamente la vittoria tramutasi in fuga. L'incipiente inno tace innanzi a un rumore cupo di armi accorrenti, di cavalli incal- zanti nei galoppi concitati. Sono i fanti e i cavalli di Roberto Gui- — 17 — scardo che arrivano, fra un nembo di polvere, dalla Puglia lontana. Tedeschi, re e anti-papa, sordidamente confusi si salvano, perchè fuggono. E nelle ansie dei mal fidi sentieri, al re, apparve forse l 'an- gelo di Dio vendicatore, nel cui nome, a Canossa, aveva chiesto perdono non coli'anima, colle labbra. X I . Alla morte, a quell'ora ultima, in cui tacciono le ire tumultuose svaniscono i sogni della grandezza che fu, le gioie dei trionfi o t - tenuti, le amarezze per le sofferte sventure; sopravvive la memoria, o consacrata al culto dei viventi o da essi maledetta ; memoria che non muore colle fralezze del corpo, ma sembra associarsi alla im- mortalità dello spirito. E quale, la memoria che resta di Enrico re, e di Ghiberto an- ti-papa? L a Storia ha scritto del primo. Corrado ed Enrico suoi figli insorsero contro di lui che invano cercò aiuto presso il loro fratello minore. Questi, nominato re dalla Dieta, per insistenza del padre, lo invitò a Magonza, dove strap- pategli le insegne del suo antico grado, lo fece morire a forza di umiliazioni cui l'infelice non resse. Cadavere, non ebbe neppure gli onori di una tomba insigne, perchè due anni dopo, fu trovato, quasi insepolto, in un luogo profano, abbietto: in una cantina. Il velo dell'obblio che copre Ghiberto, dopo la fuga da Roma, si solleva un istante, e in mezzo alle tenebre che lo avvolgono, v e - diamo a stento un morto sanguinoso su cui è scritto: Ghiberto anti- papa, ucciso, fuggendo nel n o o , dai Romani, stanchi dei raggiri, che, dal suo ritiro di Albano, cercava ordire contro il papato. Il velo si abbassa e il cadavere torna alle tenebre. XII . Il 25 maggio 1085, a Salerno, gli affannosi travagli di una vita che fu tutta una battaglia gloriosa, cessavano per il grande — i 8 — Pontefice. Sul volto pallido si era diffusa un' aureola luminosa e la mano che si era dovuta alzare maledicendo, in quell' ultima ora si piegava perdonando. Il perdono fa più maestosa la morte dei sommi, perseguitati in tutti i tempi. Una divota salmodia saliva al Cielo colla grande anima invitta, mentre un lungo fremito di mestizia, sotto un lungo raggio di gloria, correva la terra. Inviso ai nemici della Chiesa, di allora e di oggi, il Suo nome dalla Chiesa santificato, fu dalla storia chiamato grande. E mentre Gregorio V I I moriva, il mondo cristiano faceva cammino verso nuove età, spinto da quel solitario, che soffri tanto ; rigido sempre, quando esserlo fu necessario, misericordioso quando il perdono non fu colpa in tempi difficilissimi. E oggi, dopo otto secoli, corsi sopra quel nome, accanto a quella grande figura vi è alcuno, che accumulando tutte le calunnie, tutte le inimicizie, tutti i livori, può cancellare l'epiteto di sommo, scritto a grandi lettere sul nome di lui? XIII. Non andremo a Canossa. Questa la sonora promessa, pronunziata dai moderni nemici della Chiesa, da quelli, che nel pellegrinaggio di Enrico IV, al castello della contessa Matilde, vedono un agginocchiarsi indecoroso dello stato innanzi alla disconosciuta maestà dell'altare. Non andremo a Canossa. Alla promessa fanno saldo appoggio di ferro e di acciaio affin- chè non pericoli, gli eserciti permanenti, gettati, come minaccia c o n - tinua, sulla superficie della terra, ove sembra germoglino armi, non più messi ; ove il guerriero, non più la madre, veglia le cune, ove l'olivo simbolico si sfronda, bruciato dal fuoco delle battaglie. Non andremo a Canossa. Ma su per le volte sonore, l'eco non ripete fedelmente questa promessa, perchè altre voci rispondono, che Canossa oggi non è più sulle rovine annose, tentennanti presso la sponda dell'Enza, ma — r9 — sta accanto alla più grande casa di Dio, nel più sublime palazzo dell' uomo. Un giorno, quando gli eserciti stanchi, copie quelli del più grande guerriero del secolo moriente, sentiranno cadérsi dalle mani irrigidite, le armi che palleggiano adesso; chi sa se quella pro- messa non sarà soffocata da un' altro pellegrinaggio ? Non più dal pellegrinaggio di un re, solo, umile, supplicante; ma da quello di un popolo intero, il più numeroso popolo che abiti il mondo, quello degli oppressi stanchi ; popolo avviantesi a Canossa, per domandarvi pace, senza chiedere a voi il permesso di andarvi. Allora, chi sa, se, trascinati dall'onda pellegrinante, Non andrete a Canossa?