Recensioni Linguæ & – 1/2015 http://www.ledonline.it/linguae/ 77 Recensioni Una bandiera rovesciata sigriD rausiNg (eD.), AmericAn Wild, graNta, the MagaziNe of New writiNg / 128, suMMer 2014, pp. 252. Il termine Wild, che dà il titolo a questa recente raccolta di Granta, è altamente evocativo anche per un lettore non americano, o non americanista. Basti pen- sare a “The West Wild Show”, che portò il leggendario Buffalo Bill in Euro- pa; oppure alla canzone “Born to Be Wild” (Steppenwolf 1968) che fu il pez- zo più importante della colonna sonora dell’altrettanto leggendario film Easy Rider (Dennis Hopper 1969); oppure, alla canzone di Lou Reed “Walk on the Wild Side” (1972); oppure, ancora, al film Into the Wild di Sean Penn (2007) tratto dal libro omonimo di Jon Krakauer; o ancora, più semplicemente, all’a- cronimo del WWF, l’associazione che si impegna proteggere la “wild life” del pianeta, cioè la natura e gli animali. Ma bisogna forse essere americani, o almeno studiosi della cultura ameri- cana, per comprendere appieno la scelta, effettuata dalla curatrice del presente volume collettaneo, di dedicare un intero numero di Granta a questo concetto, wild, che è insieme aggettivo, simbolo e nome. Wild è legato a un’altra parola, wilderness, che rappresenta tutto ciò che è selvaggio, vale a dire non addome- sticato, non ricondotto o riconducibile nei binari ed entro le regole della “ci- viltà”: un termine usato in epoca puritana (coloniale) per indicare i luoghi pe- ricolosi infestati da demoni, indigeni e belve feroci, e in epoca più recente per identificare il patrimonio di parchi naturali degli USA. Forse per tutte queste ragioni la curatrice non avrebbe dovuto aspettarsi, come invece confessa di aver fatto all’inizio, contributi che si riferissero alla wilderness in modo metaforico: infatti, come lei stessa ammette, “this is Ame- rica, a genuinely wild land” (p. 8) – e quindi le storie che compongono questo affascinante mosaico americano rappresentano un viaggio autentico nei luoghi http://www.ledonline.it/linguae/ Recensioni Linguæ & – 1/2015 http://www.ledonline.it/linguae/ 78 selvaggi di questo Paese, e incontri autentici con persone e situazioni altrettan- to wild – diverse, inconsuete, non convenzionali. I racconti sono molto diversi tra loro, per stile, ambientazione, personag- gi, temi: ma tutti sono ricollegabili a questo nome/aggettivo/simbolo – wild – che viene declinato in ogni sfumatura possibile di significato. Sia che l’azione sia ambientata in una baracca del Colorado (“Thing with feathers that perch- es in the soul” di Anthony Doerr), o in una riserva Crow (“Exotics” di Callan Wink); sia che si parli di discriminazione razziale (“A Confession” di Jess Row) o di disastro ecologico (“Chasing wolves in the American West” di Adam Nicolson); sia che si descriva la tristezza dei colori del tramonto (“Beyond Sun- set” di Mary Ruefle) o che si inventino favole moderne come “The Mast Year” di Diane Cook o “Mirage” di Claire Vaye Watkins; e perfino quando il wild si domesticizza nel dialogo fra due gatti (“self-portrait” di Martin Amis), appa- re chiaro che il legame profondo tra tutti questi racconti è il caleidoscopio di emozioni e sentimenti che ricollega gli autori e i loro personaggi all’alma mater – come la chiamava Crevecoeur due secoli fa – americana. C’è poi un sotto-testo letterario che percorre tutta la raccolta, annodando idealmente le storie intorno alla citazione da Emily Dickinson (Hope, cioè la spe- ranza, è quella “Thing with feathers that perches in the soul”, p. 14) e all’omag- gio thoroviano “A Meeting of Minds with Henry David Thoreau” di Andrew Motion. Dickinson (la più grande poetessa americana di tutti i tempi) e Thoreau (legato al movimento Trascendentalista) sono due pilastri dell’Ottocento ame- ricano: la prima senza mai uscire di casa per tutta la sua vita, il secondo andan- do a vivere volontariamente e in solitudine in una capanna sul lago di Walden, rappresentano entrambi una scelta esistenziale radicale, eterodossa, quasi ereti- ca, dove il wild è più legato all’ambito introspettivo, a una condizione dell’ani- ma, piuttosto che a un preciso luogo geografico. Thoreau, fra l’altro, è citato an- che in “Krapp Hour” di Anne Caron, che porta sulla pagina i dialoghi di un talk show, insieme a Jack Kerouac (il celebre autore del romanzo On the Road, 1957) e ai suoi amici della cosiddetta beat generation Cassady, Ginsberg e Burroughs, a ragione definiti “the greatest American writers since the Transcendentalists” (p. 181). Non solo: “Krapp Hour”, pur senza nominarlo esplicitamente, si ricollega a molte poesie e racconti di Delmore Schwartz, un autore ebreo americano atti- vo dagli anni ’30 agli anni ’60 di cui Carson riprende, fra l’altro, l’uso del dialogo strutturato a botta-e-risposta e l’utilizzo del termine “Ghost” a indicare sia il fan- tasma, sia lo Spirito Santo (“Holy Ghost”, che si ricollega però anche alla simbo- lica ripetizione di “Holy” nella lungo poema di Ginsberg Howl, 1955). Come si può vedere, questo libro si presenta anche come una rivisitazione di alcune tra le tappe principali nella storia della letteratura americana. E c’è naturalmente l’altra faccia del wild, o la sua faccia più oscura, come la denuncia del duro lavoro femminile alla ‘catena di montaggio’ della pulizia Recensioni Linguæ & – 1/2015 http://www.ledonline.it/linguae/ 79 del pesce in “River so close” di Melinda Moustakis, dove il dramma di donne che faticano sedici ore al giorno in condizioni disumane ai limiti della soprav- vivenza si può riassumere nell’interrogativo quotidiano: “Sleep or shower?” – “Dormo o mi faccio la doccia?”, p. 55). Per finire, completano il volume numerose fotografie, la più bella delle quali, e che a mio parere avrebbe dovuto essere usata come foto di copertina, appartiene alla sezione intitolata “Mitakuye Oyasin” (Aaron Huey): è quella che ritrae un accampamento di nativi americani membri di un gruppo di resi- stenza nel South Dakota. Accanto a un tepee si vedono alcune persone, un’au- tomobile, e poi ancora una bandiera americana: solo dopo qualche istante di perplessità si nota che è montata al contrario, come simbolo di sfida al potere degli invasori. Alessandra Calanchi Testimonianze multiculturali nel Regno Unito sergio guerra, Figli dellA diAsporA: romAnzo e multiculturAlità nellA grAn BretAgnA contemporAneA (1950-2014), faNo, aras eDizioNi, 2014, pp. 265 Scrivo questa recensione due giorni dopo l’attentato parigino a Charlie Hebdo e avverto tutta l’attualità del libro di Sergio Guerra che ho appena letto: Figli della diaspora: Romanzo e multiculturalità nella Gran Bretagna contemporanea (1950-2014). Concepito come un manuale rivolto in primo luogo agli studen- ti universitari, ma capace di coinvolgere un più ampio pubblico, il libro si pro- pone di mappare la letteratura Black British e British Asian, quindi i romanzi prodotti in Gran Bretagna a partire dal secondo dopoguerra in seguito alle dia- spore originatesi nelle ex-colonie di Caraibi, Africa e Asia. È un campo di ricerca che di recente ha visto una fioritura di studi, anche in Italia, come mostra Black Arts in Britain: Literary, Visual, Performative (2011), un volume miscellaneo – curato da Annalisa Oboe e Francesca Giommi – che allarga l’indagine critica all’ambito culturale. Del nesso imprescindibile tra let- teratura e cultura è d’altronde ben consapevole lo stesso Guerra, che ha al suo attivo un’antologia intitolata Introduzione agli Studi Culturali Britannici (2002). Figli della diaspora è chiaramente frutto di un percorso di ricerca intra- preso dall’autore da molti anni e sviluppatosi attraverso l’esperienza didatti- ca, il confronto sul campo con la trasmissione del sapere. È questo il punto di Recensioni Linguæ & – 1/2015 http://www.ledonline.it/linguae/ 80 forza del libro, che esamina un fenomeno ampio nella sua complessità, con la volontà di avvicinare a questa complessità chi non dispone ancora degli stru- menti necessari – di tipo metodologico, storico, letterario – per comprenderla. Trovo il volume utilissimo sul piano dell’insegnamento proprio perché mira a costruire le competenze del lettore attraverso un percorso molto nitido: un capitolo iniziale che delinea la storia dell’immigrazione in Gran Bretagna, nel suo rapporto con la storia dell’Impero e con lo sviluppo di ideologie razzi- ste, ma anche con l’abolizionismo, ricordandoci che la presenza di neri e asia- tici in Gran Bretagna – anche in veste di autori – è radicata ben più in profon- dità di quanto si potrebbe a tutta prima pensare. Mi limiterò a citare la prima slave narrative pubblicata in inglese: A Narrative of the Most remarkable Par- ticulars in the Life of James Albert Ukawsaw Gronniosaw, an African Prince, As related by himself (1772), che ripercorre la vita dell’autore dalla cattura in Afri- ca alla schiavitù e alla libertà, ma anche alla povertà sperimentata in territorio inglese. Gronniosaw è uno dei tanti scrittori che il volume ricorda nell’intento di restituire ai Black British e British Asian il ruolo che hanno avuto nello svi- luppo della cultura britannica, nel corso dei secoli e in particolare in seguito al- le ondate migratorie del Novecento. Il secondo capitolo muove dall’approccio storico a quello teorico, nell’in- tento di delineare alcuni concetti chiave per la comprensione dei fenomeni dia- sporici e del multiculturalismo. Vengono qui esplorati termini come ‘Home’, Cross-cultural adaptation, Differenze generazionali, Ibridità, Blackness e British- ness, Post-ethnic e post-racial, Transnazionalismo e cosmopolitismo, Multicultu- ralismo. Questa galassia concettuale rende il senso dei problemi che il fenome- no letterario Black British / British Asian pone e del bagaglio teorico che è sta- to sviluppato in anni recenti attraverso lo studio delle dinamiche diasporiche. Segue un terzo capitolo – nuovamente di taglio storico – in cui l’autore si confronta nello specifico con le culture Black British e Black Asian, raccon- tate nel loro sviluppo dalla data simbolica del 1948, anno del Nationality Act e dell’arrivo in Gran Bretagna della Empire Windrush, la prima nave di migranti caraibici. Centrale è qui il conflitto politico e sociale: l’atteggiamento dei parti- ti conservatori al governo, il razzismo della polizia, la violenza degli skinhead, i riot che si sviluppano a più riprese nei quartieri poveri di Londra e di altre cit- tà. Non mancano però tentativi di ‘incontro’, come lo sviluppo della Common- wealth Literature, materia di studio la cui nascita è sancita nel 1964 da un con- vegno all’Università di Leeds. La società britannica prende contatto con la presenza Black British e Black Asian attraverso un processo duplice, di ostilità e ospitalità, di rifiuto e riconoscimento. La presenza dei black si fa sentire in modo via via più incisi- vo sulla scena musicale, letteraria, del cinema, della fotografia, ma anche per le strade di Londra, come mostra il successo del carnevale di Notting Hill. Il fe- Recensioni Linguæ & – 1/2015 http://www.ledonline.it/linguae/ 81 nomeno è complesso e l’autore ripercorre i vettori contrastanti di cui si com- pone questo campo di forze, che porta al rimodellamento dell’identità britan- nica in senso più ampio e sfaccettato. Segue un’ampia sezione centrale in cui Figli della diaspora – fedele all’i- dea cardine di mappatura – esplora la biografia e la produzione di numero- si autori caraibici, africani, asiatici, tracciando una serie di schede che nell’era di internet potrebbero parere superflue e che sono tuttavia giustificate dal ta- glio didattico. Internet è sì uno strumento prezioso, per chi sa cosa cercare, ma Guerra vuole appunto ‘formare’, anche attraverso la costruzione di un reper- torio di autori i cui profili sono presentati in modo conciso ma incisivo, sem- pre con spirito critico. La volontà di sistematizzare presiede anche alla sezione successiva, in cui vengono esplorati generi, stili e linguaggi della letteratura Black British e Bri- tish Asian. Solo al termine di questo lungo percorso introduttivo e formati- vo, l’autore esercita il suo affondo critico. I cinque case studies che seguono esplorano autori come Hanif Kureishi, Timothy Mo, Meera Syal, Hari Kunzru, per concludersi con una più ampia riflessione su “La rappresentazione dei musulmani nella letteratura diasporico-britannica contemporanea”. Queste pagine ci riportano all’attualità di Figli della diaspora, dove Guer- ra ricorda come dagli anni Ottanta “controversie e dibattiti riguardanti i musulmani sono fioriti nell’arena pubblica intorno a temi come la libertà di espressione, il multiculturalismo o il terrorismo” (229). Inutile dire che i re- centi fatti di Parigi hanno riportato questi temi al centro del dibattito politico e culturale. E se è con commozione e tristezza che ho appreso delle morti dei disegnatori di Charlie Hebdo e delle altre vittime – tra cui ricordo il poliziotto musulmano Ahmed Merabet – al contempo è con fiducia e speranza in un fu- turo migliore che ho ascoltato, sui media italiani, francesi, britannici, servizi e interviste da cui traspare la ferma volontà di non lasciare che il terrorismo po- larizzi opinioni e identità, frenando quel processo di dialogo e integrazione nel rispetto delle differenze che caratterizza l’Europa di oggi. Con queste riflessioni sul presente concludo la lettura di un volume che si propone una missione alta, fondante per la società: quella di formare i giovani, evitando i tecnicismi di un discorso scientifico inaccessibile ai più e cercando viceversa di costruire una consapevolezza culturale, sociale, politica partendo dalle fondamenta. Quello di Guerra è un atteggiamento didattico pragmatico e diretto che come insegnante condivido, anche nella scelta di un uso spiglia- to della lingua vicino ai lettori più giovani. Grazie all’autore per questo libro, che molti studenti leggeranno con profitto e che spero contribuirà a fare di lo- ro migliori cittadini nell’Europa di domani. Maurizio Ascari Recensioni Linguæ & – 1/2015 http://www.ledonline.it/linguae/ 82 Dedicato alle donne innamorate giaNfraNca Balestra (a cura Di), Women in love. ritrAtti di donne in letterAturA, arteMiDe, roMa, 2014, pp. 276. È raro che un volume collettaneo, per giunta scritto in onore di una colle- ga-docente in procinto di andare in pensione, riservi al lettore tanti spunti di interesse e tante piacevoli sorprese come questo di cui ho scelto di parlare (a cui si affianca un volume “gemello” che si intitola Women in Translation. Donne in traduzione, a cura di Carla Francellini, stesso editore stesso anno). Personalmente, ammetto di conoscere e apprezzare sia la curatrice, Gianfranca Balestra, sia la destinataria, Giovanna Mochi, ma, oggettivamente, questo volu- me è piacevolissimo e gradevolissimo a prescindere. A partire dal titolo infat- ti – un evidente omaggio a D.H. Lawrence – il volume è caratterizzato da un grande amore per la Letteratura (con la L maiuscola) prima ancora che dall’in- teresse per il campo specifico di cui vuole occuparsi (le donne innamorate nel- la letteratura) e questo aggancia subito l’attenzione in un gioco di affetti, di ci- tazioni, di rimemorazioni che è ben noto a chi ami, appunto, non solo le varie letterature nazionali ma la Letteratura tout court. Nelle pagine di questo libro – alla stesura del quale hanno partecipa- to noti e meno noti studiosi e studiose di letteratura inglese, angloamericana, portoghese, russa, latina, tedesca, francese, ispanoamericana e italiana, non- ché di filologia, discipline dello spettacolo e letteratura comparata – si ritrova quell’ampio respiro che spesso manca agli studi di settore, quell’orizzonte ve- ramente internazionale, erudito e interdisciplinare che collega, come grazie a una rete invisibile, Shakespeare a Genette, Virginia Woolf a Ines de Castro, la femme fatale alla musa ispiratrice. Ora oggetto del racconto ora soggetto del narrare, la donna è sempre e comunque protagonista assoluta del volume, nei contributi degli studiosi come in quelli delle studiose, nei saggi sul medioevo come in quelli sul postmoderno o sul mondo antico. Gianfranca Balestra, che è americanista e ha scritto ampiamente su Edith Wharton, Alice Munro e Margaret Atwood, apre la sua bella “Introduzione” citando Emily Dickinson (e subito dopo Rimbaud) e portando dunque il letto- re nel territorio della poesia; da qui si passerà alla narrativa, per poi approda- re alla riscrittura, alla traduzione, alla messa in scena. Tanti modi e tante forme per parlare di donne innamorate, di donne e desiderio romantico, di corpo e di scrittura. Senza dimenticare, accanto alle grandi protagoniste della scena lette- raria già ricordate, i nomi di autrici meno note che, nel parere della curatrice, meritano di essere (ri)scoperte. Il libro, che segue una struttura in ordine cronologico, si compone di cin- que sezioni. La prima si intitola “Modelli classici e medioevali. Riscritture” e Recensioni Linguæ & – 1/2015 http://www.ledonline.it/linguae/ 83 comprende, tra gli altri, un saggio sulla figura di Brunilde e uno su quella di Ele- na, due tra i personaggi femminili più noti rispettivamente della letteratura me- dievale e del mito classico, rivisitati in modo tale che ne percepiamo la scottante modernità. La seconda parte, “La messa in scena dell’amore”, riunisce saggi de- dicati soprattutto al teatro shakespeariano e alla commedia, mentre la successi- va, intitolata “Amori modernisti”, affronta diversi romanzi e romanzieri (fra cui James Joyce e Virginia Woolf) e uno dei più celebri processi a libri, quello a L’a- mante di Lady Chatterley. La quarta sezione, “Donne che scrivono d’amore”, si muove tra narrativa francese, inglese, messicana e canadese, mentre la quinta e ultima parte, “Women in love?” include scrittrici poco note e avvolte nel mistero che vengono presentate con lo sguardo indagatore del detective, tanto da giustifi- care il punto interrogativo presente nel titolo come sintomo di una quest che sim- bolicamente chiude il volume aprendosi all’opportunità di nuove letture critiche. Convenzioni e stereotipi, gelosia e frustrazione, passato e presente si mi- scelano nel giusto equilibrio con rigore accademico e cognizione di causa nel- le pagine di questo volume, che me ne ha riportati alla mente altri che negli ul- timi anni del secolo scorso hanno profondamente segnato la mia crescita pro- fessionale – da Voci e silenzi: la re-visione al femminile nella poesia di lingua in- glese a cura di Vita Fortunati e Gabriella Morisco (1993) a Passaggi: letterature comparate al femminile a cura di Liana Borghi (1998) e En travesti: figurazio- ni del femminile nella letteratura inglese di Ornella De Zordo (1999) – accan- to ai quali questo volume trova uno spazio naturale, apportando nuove idee e prospettive, forse meno radicali che in passato (per esempio, includendo uno sguardo maschile), ma ugualmente lucide, colte e appassionate. Se dovessi trovare per forza una mancanza in questo volume, che riten- go comunque straordinario sotto tutti i punti di vista, direi che avrebbe potu- to (dovuto?) trovarvi spazio anche una piccola sezione sul lato “oscuro” dell’a- more, cioè su quella lunga teoria di equivoci, fraintendimenti, mascheramenti che nel corso della storia hanno fatto passare per amore ciò che in realtà amo- re non era, e che sono ampiamente documentati nei racconti di matrimoni for- zati, rapimenti, reclusione, accusa di pazzia, abuso e violenza fisica e psicolo- gica tra le mura domestiche, insomma tutto ciò che oggi va sotto il brutto (ma giustificato) nome di femmicidio, e che la Letteratura, di fatto, ha registrato da sempre. In realtà casi come quelli sopra citati spuntano frequentemente qua e là nei saggi, ma senza essere problematizzati più di tanto. Credo tuttavia che la scelta effettuata, cioè di mettere in secondo piano ciò che, appunto, amore non è, sia stata in realtà quella giusta: per far capire al lettore e alla lettrice fino a che punto si possa usare la parola amore, nella vita come nella Letteratura; e oltre quale punto, invece, non la si possa (debba) più usare. Alessandra Calanchi Recensioni Linguæ & – 1/2015 http://www.ledonline.it/linguae/ 84 Un vertiginoso excursus sul “secolo americano” luca giaNNelli, neW York conFidentiAl. AvAnguArdiA, modernità e intellettuAli in AmericA, dAllA scuolA di chicAgo AllA pop Art, circolo prouDhoN historica eDizioNi, 2014, pp. 271. prefazioNe Di steNio soliNas. Questo libro è esattamente quello che non è un testo accademico di tipo spe- cialistico. Non perché gli manchi il rigore scientifico, per carità: ma per la sua appassionata ricerca di una all inclusiveness che ne tradisce subito la (non)ap- partenenza. Difatti Luca Giannelli non è un americanista d.o.c.g., bensì un ar- chitetto che di professione fa il giornalista; per l’esattezza, è nientemeno che il caporedattore al TG de La7. E il suo libro (fin dal titolo) è organizzato come un intrigante dossier: cosicché noi lettori, già nelle prime pagine – anzi, fin dal- la copertina, in cui ci inseriamo giocoforza unendo il nostro sguardo a quello dei passanti che osservano il Guggenheim, ripresi di spalle – siamo sollecitati a curiosare tra le mille informazioni da cui verremo travolti, sempre più convin- ti che valga la pena proseguire la lettura, sempre più consapevoli di avere tra le mani un prezioso puzzle della modernità americana e desiderosi di posseder- ne, alla fine, un quadro non solo completo, ma coerente. Il progetto, diciamolo pure, è ambizioso e deliziosamente naif al tempo stesso. Stipare in meno di 250 pagine (il resto è un’ottima bibliografia; pecca- to manchi un indice dei nomi) tutto ciò che promette il sottotitolo sarebbe già di per sé una bella impresa; ma a Giannelli non basta ancora. E lo capiamo già dal risvolto di copertina, da quella prima riga truffaldina che parla di Ham- mett (purtroppo con lo spelling sbagliato: si chiamava Dashiell, non Dashell, ma è un refuso di cui di certo non è responsabile l’autore) e della nota meta- fora del vaso di cristallo. Lo capiamo anche dalla quarta di copertina, che pre- senta una serie di “indizi” che assomigliano a un quiz di letteratura o cultura anglo americana: una scelta davvero intelligente, rivolta sia agli specialisti, ai quali il “quiz” risulta facile ma intrigante, sia agli absolute beiginners, sicura- mente attratti dall’opportunità di imparare tutto sugli USA in modo divertente e, appunto, anti-accademico. Anche la Prefazione di Stenio Solinas (altro giornalista) parte da una cap- tatio benevolentiae a cui non posso restare indifferente: si apre infatti con un doveroso omaggio all’antologia Americana curata d Elio Vittorini nel lontano 1941, e in particolare all’Introduzione di Emilio Cecchi, elogiata per aver col- to, già alla metà del secolo scorso, l’egemonia culturale degli USA. Quello che Solinas non dice, vuoi per dimenticanza, vuoi per scelta, è che in realtà a quel tempo leggere autori americani significava non tanto accettare una sudditanza di tipo coloniale (o meglio, non ancora), quanto “respirare” una cultura “altra” Recensioni Linguæ & – 1/2015 http://www.ledonline.it/linguae/ 85 dribblando la censura fascista e il paraocchi nazionalista; provare a diventare internazionali, insomma. Così come non coglie, a mio avviso, un altro punto fondamentale della cultura americana: non sono convinta, come lui asserisce, che “l’imperialismo americano … non deriva da un disegno”; al contrario, cre- do che il “disegno” ci sia e abbia radici molto antiche, che affondano nel cove- nant dei Padri Pellegrini e nel moral duty dei Padri Fondatori, nell’immagine della city upon the hill (che, contrariamente a quanto pensa Giannelli, ha ben poco a che vedere con “quel suo paradossale surrogato che è il suburbio”) e nella teoria del Destino Manifesto. Ma, naturalmente, posso sbagliarmi. Il libro di Giannelli, come scrive giustamente Solinas, è costruito su un gioco di rimandi tra architettura, arte, cinematografia e – aggiungo io – lettera- tura. È un volume denso e strutturato, come avverte Giannelli nella Premessa, come un film: anzi, come un film americano, o ancor meglio, come un western o un poliziesco (altrove, Giannelli utilizza un po’ impropriamente i termini giallo e noir come sinonimi, ma lo perdoniamo) “ambientato nella wilderness metropolitana di New York”. Un film con tantissimi personaggi, “tutti colpe- voli e innocenti, tutti diversamente Americani”; un film al quale manca, però, il tipico Hollywood ending, il lieto fine: non perché la fine sia drammatica, ma perché il finale è aperto, ovvero la storia, logicamente, non può concludersi. E si scusa coi lettori per la sua “pretesa di guardare alle cose americane con occhi europei”, una colpa di cui in realtà non ha a mio avviso alcun bisogno di scu- sarsi, visto che ha illustri precedenti sia nel campo della critica sia, per conti- nuare la metafora, nel campo del cinema – basti pensare che alcuni tra i miglio- ri film sull’America li hanno fatti registi stranieri: vedasi Fritz Lang (Metrop- olis), Michelangelo Antonioni (Zabriskie Point), Wim Wenders (Paris, Texas, The Million Dollar Hotel, Land of Plenty), Sam Mendes (American Beauty). Ma arriviamo ai contenuti veri e propri. Sempre partendo da metafo- re (nel primo capitolo, quella del Mount Rushmore dà l’avvio “cinematogra- fico” – tramite Hitchcok, naturalmente – al discorso sul Canone della moder- nità american), Giannelli inizia il suo excursus con due numi tutelari: Jackson Pollock e Frank Lloyd Wright. Padre dell’astrattismo il primo, dell’architettu- ra organica il secondo, ben rappresentano nella loro diversità l’arte america- na moderna da cui prenderà poi forma “un articolato pantheon da esportazio- ne” – Duchamp, l’action painting, la pop art, la fotografia, Rothko e Hopper – e che si muoverà prevalentemente in senso contrario a quello della Frontiera ottocentesca descritta da F.J. Turner, ovvero da Ovest verso Est. Sarà un’arte sempre più rivolta alle masse, che dialogherà col cinema e inseguirà i gusti del pubblico, e che influenzerà anche l’Italia in due modi: da un lato, sollecitan- do critiche agli aspetti orribili della società dei consumi da parte dell’ “intelli- ghentsia seriosa che in Italia ha gestito le faccende culturali praticamente fino all’inizio degli anni Ottanta” (su questo punto mi permetterei, in altra sede, di Recensioni Linguæ & – 1/2015 http://www.ledonline.it/linguae/ 86 avanzare qualche obiezione) o viceversa accettandoli in nome dell’anticomuni- smo e della “libertà democratica” (mi perdoni Giannelli: io avrei detto “pseu- do-democrazia liberista”). Tessendo paragoni fra Emerson e Thoreau (ieri) e Oliver Stone e Michael Moore (oggi), e inframmezzando Pearl Harbor a Obama, la Partisan Review a Midnight Cowboy, la formula “Art for Art’s Sake” alla Fiera di New York del 1939 “Building the World of Tomorrow”, il Boston Tea Party e il vaudeville, “The American Sex Revolution” e la Guerra di Mondi, Giannelli percorre in modo acrobatico, erudito, accattivante, argutamente interdi sciplinare non solo la storia dei movimenti artistici, ma tutta la storia americana, il suo cinema, la sua narrativa, il suo pensiero critico, che mostra di conoscere a menadito. E pa- re quasi soffrire di una sorta di horror vacui della scrittura, per cui ogni pagina è una mappa del tesoro da leggere e rileggere più volte, una miniera da cui estrar- re – ai vari livelli – informazioni, suggestioni, riflessioni. Rivelando grande mae- stria, la sua oratoria si muove su due e più binari: da un lato dando informazio- ni precise (impariamo per esempio che Wright compare tra i “filocomunisti” du- rante il maccartismo), dall’altro ponendo domande (“chi è, infine, Andy Warhol? Il campione della ‘simulazione autentica’, il ‘genio del marketing’, l’ ‘artista filo- sofo’ … o invece il realista innocente …?”), e ancora cercando di definire chi sia l’“Americano puro” e cosa sia la bellezza, e ancora dedicando spazio alle donne (Georgia O’Keeffe, Mary Cassat, Gertrude Vanderbilt Whitney e Juliana Force, ecc.), e ancora citando le scoperte freudiane e le teorie di Gurdjeff, e altro ancora. Insomma. Un libro intenso, ricco, documentato, che vale senz’altro la pe- na leggere perché ci apre una finestra sul mondo dell’arte e al contempo la fa dialogare con tutti gli altri aspetti della società americana e ci fa riflettere an- che sul nostro presente. Alessandra Calanchi Il piccolo cerchio aNNa KathariNe greeN, lo studio circolAre, Neropress eDizoNi, roMa, 2014, pp. 274. Gironzolando all’ultimo Salone del Libro di Torino mi sono imbattuto in un poliziesco dalla copertina rigorosamente gialla e dal disegno accattivante: The Circular Study di Anna Katharine Green, pubblicato e tradotto di recente an- che in Italia con il fedelissimo titolo di Lo Studio Circolare. Recensioni Linguæ & – 1/2015 http://www.ledonline.it/linguae/ 87 Anna Katharine Green (1846-1935), per chi non lo sapesse, è stata una poetessa e prolifica giallista americana, con una quarantina di libri all’attivo, nonché “amica di penna” del filosofo Ralph Waldo Emerson. La cosa che sor- prende di più, però, è che questa donna, rimasta nell’oblio maschilista per molti anni – poiché esordì come scrittrice in un’epoca in cui nessuna donna veniva accettata come scrittrice tout-court, né tantomeno come scrittrice di ro- manzi polizieschi, territorio squisitamente virile – ha diversi punti di contat- to con un più celebre e acclamato collega d’oltreoceano: Arthur Conan Doyle. Vediamo quali sono. In primo luogo, così come accaduto al medico scozzese, la Green si av- venturò nella crime fiction in seguito a un fallimento: non le era infatti riuscito di affermarsi come poetessa. Con un po’ di ardimento ci si potrebbe doman- dare se la sua delusione non fosse la stessa che Conan Doyle avrebbe prova- to qualche anno più tardi nel vedere il suo ambulatorio perennemente vuoto e senza l’ombra di un paziente. Sì, ho detto qualche anno più tardi, perché il pri- mo romanzo della trilogia che vede protagonista un’inedita coppia investigatri- ce formata da un uomo e una donna, il detective Gryce – un Lestrade alla so- glia della pensione e con molta meno spocchia – e la magnifica dilettante Ame- lia Butterworth, The Leavenworth Case, è del 1878, anno in cui Watson termi- na gli studi per poi andare in Afghanistan; ma Conan Doyle pubblicherà il suo primo romanzo, A Study in Scarlet, solo nel 1887. Amelia Butterworth è una simpatica zitella, un’arguta vecchietta che an- ticipa i tratti di una Miss Marple meno convinta di se stessa. Quando uscì, The Leavenworth Case riscosse un buon successo di pubblico e critica, ma lo stes- so non si può dire per l’autrice, perché nessuno credeva che una donna potes- se aver scritto una storia così misteriosamente perfetta, e tutti pensavano che Anna Katharine Green fosse soltanto un George Sand al contrario, un nome de plume dietro cui si celava una diabolica mente maschile. La capacità di osser- vazione di Miss Butterworth le è in seguito valsa il titolo di “the female rival of Sherlock Holmes”, quando Sherlock Holmes è stato rivelato al mondo. Ame- lia Butterworth è certamente la prima donna detective nella storia della narra- tiva poliziesca, e ha una mente all’altezza di quella del fumatore di Baker Stre- et. Una specie di Irene Adler nella terza età e senza quella malia da femme fa- tal così fuorviante. Se Edgar Allan Poe è stato giustamente definito “il padre del racconto poliziesco”, Anna Katharine Green ne è certamente la madre e, Wilkie Collins permettendo, s’inserisce tra Poe e Conan Doyle come il trait d’union tra l’inventore e il fecondatore del genere. Venendo a The Circular Study, al lettore sherlockiano più attento non possono sfuggire diverse analogie con A Study in Scarlet. Il romanzo della Gre- en, terzo e ultimo della trilogia, fu pubblicato nel 1900, dopo A Study in Scarlet e The Sign of the Four, e sembra averne riverberato gli echi narrativi, sia per la Recensioni Linguæ & – 1/2015 http://www.ledonline.it/linguae/ 88 struttura suddivisa in due parti o “libri” sia per i temi trattati: vendette e anti- chi rancori mai sopiti. Se in A Study in Scarlet l’antefatto si svolge tra i mormo- ni dello Utah nel 1876, in The Circular Study l’antefatto ha luogo tra i quacche- ri della Pennsylvania poco dopo la fine della guerra di secessione; se in A Stu- dy in Scarlet il movente del delitto è passionale e vuol vendicare un matrimo- nio “che non s’aveva da fare”, in The Circular Study l’odio attraversa il tempo per vendicare un matrimonio “che s’aveva da fare” e mai venne fatto; se nel ro- manzo di Doyle Jefferson Hope, l’assassino, viaggia dagli Stati Uniti fino all’In- ghilterra per punire il colpevole impunito, Enoch J. Drebber, nel romanzo di Green il vendicatore designato compie il percorso inverso, dall’Europa verso l’America. Fin qui le somiglianze. Ma ciò che sorprende il lettore non sherlockia- no sono perlopiù le differenze rispetto a Conan Doyle, e qui Green dimostra di essere abile e originalissima narratrice. Tanto per cominciare, “uno studio” diventa “lo studio”, e non uno studio qualsiasi, ma un “microcosmo perfet- to” dalla forma circolare: nulla, infatti, può essere più perfetto di un cerchio, la forma divina per eccellenza, così come appare in un’illustrazione biblica di William Blake. E in fondo, lo studio circolare è il mondo creato da Felix Adams già Cadwalader, un uomo che si sente Dio in quella sua bizzarra stan- zetta, arredata con le “tante belle cose di cattivissimo gusto” e dove la luce na- turale penetra a stento da due finestre nascoste alla vista; non c’è più un solo colore, il colore scarlatto di Lauriston Gardens, ma tanti colori che si danno il cambio: non più una sola prospettiva, ma tante prospettive, e uno spaesamen- to originato da una modernità che invade l’antico. Non siamo nell’ottocentesca periferia di Londra, ma in un elegante quartiere di New York, con le automo- bili che passano accanto alle carrozze, il telefono che rimpiazza, ove possibi- le, i telegrammi, e la corrente elettrica fa la sua comparsa nelle case dei ricchi; in questo caso, è una corrente elettrica che Adams ha diabolica mente piegato alle sue fantasie, costruendosi un complicato marchingegno che regola l’emis- sione della luce multicolore di un faretto, una “diavoleria”, stando alle parole di Gryce, che in seguito si scoprirà essere un “codice” che serve ad Adams per impartire istruzioni al maggiordomo – ebbene sì, l’immancabile maggiordomo di ogni giallo angloamericano – che è sordomuto e che, assistendo poi al delit- to, cerca di mimarlo alla polizia con una pantomima dagli effetti tragicomici. Il tutto condito dalla presenza di un pappagallo che continua a ripetere, alter- nandoli, due nomi di donna: “Evelyn…Eva!”. Vendetta tremenda vendetta, abbiamo detto. Tremenda sì, ma un’altra vendetta, non quella che si sarebbe dovuta consumare. A differenza di quanto accade in A Study in Scarlet, nel romanzo di Green la vendetta non si compie, o meglio, si ritorce contro uno dei vendicatori. Si potrebbe parlare di una trinità blasfema: il padre, Amos Cadwalader, emigrato scozzese che sul letto di mor- Recensioni Linguæ & – 1/2015 http://www.ledonline.it/linguae/ 89 te giura odio eterno e vendetta verso John Pointdexter, un vecchio amico (pro- prio come lo erano Ferrier e Drebber nel romanzo di Conan Doyle), divenu- to acerrimo nemico dopo aver concupito e disonorato sua figlia Evelyn, mor- ta di tubercolosi; il figlio, Felix, che per volontà del padre cambia cognome da Cadwalader in Adams, e che dovrà essere l’architetto terreno della vendetta; e poi lo spirito santo, Thomas Adams, giovanotto di bei modi e di bell’aspetto cresciuto a Parigi, colto e raffinato, da usare come Don Giovanni per colpire Pointdexter biblicamente: non ucciderlo, ma farlo morire dentro, disonoran- do sua figlia Eva, che è nata lo stesso giorno di Evelyn, anche se molti anni do- po. Occhio per occhio, dente per dente. L’immaginario biblico e religioso per- vade tutta la storia e i nomi dei protagonisti ne sono la conferma: Amos, uno degli antichi profeti; Eva, non una donna, ma la prima donna; Thomas, ovve- ro Tommaso, quell’apostolo che avrebbe creduto solo quando avrebbe messo il dito nella piaga. E Thomas Adams è un San Tommaso post litteram, un apo- stolo profano che non crede finché non vede: gli viene infatti detto che Eva, la donna sulla quale dovrà abbattersi, per suo amoroso tramite, la vendetta dei Cadwalader, è bruttissima; ma quando invece la vede scopre che è bellissima e se ne innamora perdutamente, dimenti candosi la sua missione. Un altro leitmotiv della storia è il tema del doppio. The Circular Study, ol- tre a essere un classico “locked room mystery”, è anche un gioco di specchi tra un’identità e l’altra: il pappagallo che bercia “Eva” ed “Evelyn” (ripetendo, ov- viamente, ciò che ha sentito ripetere da Felix Adams) è in realtà una “spia” del- la sovrapposizione iconica e concettuale tra le due fanciulle della storia: al di là dell’assonante vicinanza tra i due nomi, Eva-Evelyn, c’è un’impressio nante somiglianza fisica tra le due giovani donne, somiglianza fisica che diviene co- munanza di spiriti allorché Thomas incontra per la prima volta Eva quando lei va a depositare dei fiori sulla tomba di Evelyn. Stessa faccia, stessa anima. Ma il doppio non si esaurisce con il gioco Evelyn-Eva, diluendosi nell’opposizio- ne tra padre naturale e padre adottivo: Amos Cadwalader e John Pointdexter sono rispettivamente il padre naturale e il padre adottivo di Evelyn, Felix e Thomas, poiché Amos, non potendoli mantenere, li aveva fatti crescere da Pointdexter, che non aveva prole. E quando Thomas, anziché far morire di cre- pacuore Eva, la sposa contro la volontà testamentale del padre e del fratello maggiore, è colpevole d’incesto, perché sposa la figlia del suo padre adottivo. Ma Green sa osare, non ha troppo pudore, e getta anche Felix nei tor- menti amorosi: anche lui, infatti, s’innamora di Eva Pointdexter, ed è questo che compromette per sempre la vendetta dei Cadwalader. I sentimenti contra- stanti, nella seconda parte del romanzo, sono narrati secondo uno schema epi- stolare con il quale si evidenzia il contrasto tra ciò che Thomas pensa e ciò che invece scrive al fratello maggiore, e in seguito tra ciò che Thomas ed Eva pen- sano di Felix e ciò che Felix pensa di Eva. Recensioni Linguæ & – 1/2015 http://www.ledonline.it/linguae/ 90 Anna Katherine Green sa mescolare gli “elementi maschili” dei detta- gli polizieschi (lo studio circolare che si sigilla ermeticamente con una lastra di metallo, i “cinque piccoli lustrini” che consentono di identificare Eva e che stanno a metà strada tra i “cinque semi d’arancio” di Conan Doyle e i “dieci piccoli indiani” di Agatha Christie) con l’elemento femminile dell’amore. Love is a woman. In questo caso, non una donna, ma “la donna”, the woman, Eva, la prima donna creata da Dio. Felix Adams (Adamo translitterato) s’innamora di Eva. Lui, che non ha mai amato una donna in vita sua. Un po’ come il no- stro Sherlock s’invaghisce inaspettatamente di Irene Adler, the woman. In en- trambi i casi innamoramenti fatali: sconfitta investigativa per Sherlock Holmes e morte per Felix Adams, ucciso per mano della stessa Eva, rea confessa alla fi- ne del libro primo del romanzo. Il mistero non è dunque solo nel chi, ma anche nel perché e nel come. Eros e Thanatos. Amore e morte nell’inquietante studio- lo dalla luce cangiante. The Circular Study è anche una mise en abyme, un titolo che tematizza il racconto. La struttura narrativa è circolare: la storia si apre infatti nello stu- dio circolare e poi, dopo le peripezie attraverso il tempo e lo spazio, ritorna al- lo studio circolare per il grande e tragico finale: un aut aut tra morte e disono- re, un po’ come il gioco delle due pillole in A Study in Scarlet. Io la definirei un “piccolo cerchio” che fa pendant con il grande cerchio di William Blake in God as an Architect; un piccolo cerchio che non ha un punto tracciato prima degli altri, ma che passa e ripassa tra Green e Conan Doyle; un piccolo cerchio fini- to che vuol essere uno dei tanti piccoli cerchi finiti che riempiono il grande cer- chio infinito della letteratura. In quanto alla traduzione, pur con qualche inciampo e alcune frasi un po’ appesantite e farraginose – forse per via di una volontà traduttiva source-orien- ted, oltremodo rispettosa delle strutture sintattiche di un testo scritto in ingle- se ottocentesco – si può dire che è abbastanza scorrevole e più che accettabile. Luca Sartori