untitled 170 CERCASI “DIGITAL SCHOLAR”: PROFILI EMERGENTI DEI RICERCATORI IN RETE LOOKING FOR “DIGITAL SCHOLARS”: EMERGING PROFILES OF NETWORKED RESEARCHERS Antonella Esposito | Dottoranda presso la UOC, Universitat Oberta de Catalunya (ES) e Università degli Studi di Milano (IT) * Università degli Studi di Milano | Via Festa del Perdono 7, 20122 Milano, Italia | antonella.esposito@unimi.it Sommario Qual è l’impatto dei nuovi tools del Web 2.0 sulle pratiche di comunicazione e di pubblicazione dei ricercatori? Tratto da una tesi per un Master of Research, l’articolo riporta una selezione dei risultati di 14 interviste semi-strutturate ad altrettanti ricercatori senior, junior e dottorandi, operanti nelle aree umanistica e delle scienze sociali, della fisica e della medicina. Se l’atteggiamento più diffuso riguarda un approccio pragmatico e attento all’efficienza nella selezione e nell’uso dei tool vecchi e nuovi, tuttavia emergono alcuni isolati profili di nuovi ‘digital scholar’ che costruiscono in rete la propria identità digitale insieme alla produzione e alla distribuzione di conoscenza, nonostante la mancanza di legittimazione del proprio contesto di riferimento. PAROLE CHIAVE Università, Pratiche di ricerca, Digital Scholar, Produzione e distribuzione della conoscenza. Abstract What impact are new Web 2.0 tools having on communication and publishing practices in the research field? Drawn from an unpublished Master’s dissertation, this paper reports a selection of findings from 14 semi-structured interviews with senior, early-career and doctoral researchers working in Humanities, Social Sciences, Medicine and Physics. The prevalent attitude is a pragmatic and efficiency-driven approach in selecting and using traditional and new tools. However, a few isolated examples have emerged of new ‘digital scholars’. These are researchers who, as well as producing and distributing knowledge, are devoted to building their personal digital identity, even though this aspect is not legitimized within their specific research context. KEY-WORDS Higher education, Research practices, Digital Scholar, Knowledge production and distribution. Esposito A. (2012). Cercasi “digital scholar”: profili emergenti dei ricercatori in rete. TD Tecnologie Didattiche, 20 (3), pp. 170-177 TD Tecnologie Didattiche, 20 (3) 171 Il tema delle potenzialità innovatrici del social Web sulle pratiche di comunicazione, condivisione e pubblicazione dei ricercatori ha ricevuto negli ulti- mi anni l’attenzione di alcuni importanti studi in- ternazionali, ma tuttora rimane un territorio am- piamente inesplorato, in particolare nel panorama universitario italiano. Questo articolo è tratto da una tesi elaborata come requisito di un Master of Research e incentrata sull’esplorazione del rappor- to tra pratiche di digital scholarship - ovvero degli usi della tecnologia web per attività di produzione e di distribuzione della conoscenza in ambito ac- cademico - e nuove tendenze verso pratiche di open scholarship, in riferimento all’ampliamento - abilitato dalle nuove generazioni di strumenti per la comunicazione online - delle culture di condivi- sione che hanno sempre caratterizzato i diversi ambiti scientifici. Lo studio qualitativo originario è stato effettuato su un piccolo campione di ricerca- tori senior, ricercatori junior e studenti di dottorato affiliati all’Università degli Studi di Milano. Il me- todo adottato ha previsto la realizzazione di 14 in- terviste semi-strutturate a ricercatori selezionati tramite strategie di selezione degli intervistati “per convenienza” e “a palla di neve”, nelle aree uma- nistica, delle scienze sociali, della fisica e della medicina. La ricerca aveva l’obiettivo di fornire una “istantanea” degli usi correnti ed emergenti di stru- menti vecchi e nuovi nelle pratiche della ricerca e di raccogliere una varietà di pareri sulla possibile evoluzione delle culture di condivisione all’interno dei diversi settori disciplinari. Questo articolo si concentra sulla parte descrittiva dello studio, rela- tiva alle pratiche tecnologiche raccontate dai sin- goli ricercatori e alla loro idea di digital scholar. La selezione di dati qui presentata viene interpretata attraverso un confronto con studi empirici su vasta scala e considerando le tipologie di online engage- ment dell’individuo rispetto al Web (White e Le Cornu, 2011) e il fenomeno del nuovo ricercatore digital, networked and open discusso da Martin Weller (2011). LA LENTE INTERPRETATIVA Nel suo libro più recente, dedicato alla figura emergente del digital scholar, Martin Weller (2011) propone una lettura dei cambiamenti in at- to nel ruolo dei ricercatori, sottoposti alle pressio- ni e alle opportunità delle tecnologie Web 2.0. L’autore si basa sull’analisi delle pratiche di ricer- ca innovative che fanno uso del social Web: ad esempio, dall’uso sistematico del blog come mez- zo di pubblicazione informale all’adozione di rivi- ste online in open access; dalla condivisione di in- dicazioni bibliografiche all’utilizzo del crowdsour- cing - ovvero l’affidarsi al contributo collettivo e vo- lontario degli utenti Web - come tecnica di raccol- ta dati; dalla sperimentazione di open notebook in ambito scientifico alla co-progettazione di stru- menti di learning analytics. Weller propone una descrizione dichiaratamente provvisoria del digital scholar come di «qualcuno che adotta approcci di- gitali, in rete e aperti per dimostrare specializzazio- ne in un determinato ambito di studio» (Weller, 2011). Weller fornisce una veloce panoramica di come queste tre caratteristiche assegnate al ricer- catore si siano in realtà rivelate in modi diversi fin dagli inizi degli anni Novanta del secolo scorso. Tuttavia, interpretato in maniera radicale, questo nuovo modello di digital scholar sottende per l’au- tore un processo di democraticizzazione del siste- ma di reclutamento dei ricercatori - innestato dal social Web - grazie al quale «un ricercatore affer- mato può essere benissimo qualcuno senza alcu- na affiliazione istituzionale» (ib.), poiché la sua re- putazione viene definita più dalle reti di relazioni online e dall’identità digitale che si costruisce nel tempo che dall’appartenenza istituzionale. Questa idea di ricercatore digitale sottintende che vi sia una stretta relazione tra uso del social Web e ap- propriazione di una più profonda cultura della con- divisione tra pari e tra docenti e studenti, sia nel- l’insegnamento che nella ricerca in università. Tut- tavia, la diffusione di atteggiamenti emergenti de- ve fare i conti con quella che l’autore definisce co- me «matrice di resilienza verso la digital scholar- ship», che considera ostacoli e fattori inibitori a li- vello di politica nazionale, istituzionale, di area di- sciplinare e di propensione individuale. Uno schema concettuale utile per interpretare la cesura tra un prima e un dopo rispetto alle tecnolo- gie Web e al tipo di online engagement richiesto al- l’individuo per utilizzarle è invece rappresentato dalla polarizzazione tra Visitors e Residents propo- sta da White e Le Cornu (2011). L’ambiente del so- cial Web è costituito da nuovi tipi di applicazioni software che possono essere spiegate più efficace- mente dalla metafora dello spazio e del “luogo” - inteso come «l’essere presente con altri» (White e Le Cornu, 2011) - piuttosto che dalla metafora del tool, ovvero di «uno strumento adatto ad uno sco- po» (ib.). Questo implica per gli autori un cambio di paradigma nel tipo di impegno online delle per- sone: da Visitors - che usano il Web come una ri- messa degli attrezzi dalla quale prendere di volta in volta lo strumento necessario per un dato scopo e limite temporale - a Residents, che intendono il Web come «un luogo per esprimere opinioni, un luogo nel quale le relazioni possono formarsi ed estendersi» (ib.) e dove contenuti e identità digita- le tendono a sovrapporsi. L’alternanza Visitors/Re- sidents è pensata in realtà come un continuum in cui collocare opportunamente i comportamenti di- gitali degli individui: la propensione verso l’uno o l’altro dei due poli prescinde dal grado di compe- tenza tecnologica e dovrebbe essere valutato per White e Le Cornu rispetto al complesso delle “alfa- betizzazioni digitali”, ovvero rispetto all’insieme di competenze e abilità richieste dal contesto e dal settore disciplinare in cui l’individuo si trova ad operare. GLI STUDI EMPIRICI Molti studi recenti - condotti principalmente nel Re- gno Unito e negli USA - sono dedicati ad indagini sui social media nelle attività di ricerca. Tali studi concordano sul fatto che vi sono prove molto scar- se relative alla diffusione tra i docenti e ricercatori universitari dei celebrati nuovi canali della comuni- cazione (Harley et al., 2010; Procter Williams, Ste- wart, 2010; Schonfeld e Housewright, 2010). I ca- nali tradizionali, quali conferenze e seminari: «spesso resi più efficienti dalla transizione al digitale, ma d’altra parte praticamente immu- tati, rimangono tuttora i mezzi più importanti tramite i quali i ricercatori comunicano sia for- malmente che informalmente» (Schonfeld e Housewright, 2010: p. 25). Strumenti Web 2.0 (come blog, RSS feed, wiki, Twitter) non vengono citati in questi studi come meccanismi popolari: in qualche caso sono visti per- sino come «una perdita di tempo perché non sono sottoposti alla peer review» (Harley et al., 2010: p. 25). Queste rilevazioni sono confermate anche da ri- cerche su piccola scala, quali l’indagine di Kraker e Lindstaedt (2011) nell’area dei ricercatori di e-lear- ning e l’audit portato a termine da Pearce (2010) presso lo staff dell’Open University. Da una parte Procter Williams, e Stewart (2010: p. 8), nel loro studio condotto su scala nazionale nel Regno Unito, rilevano che «il processo di sperimentazione e in- novazione risulta essere al momento altamente lo- calizzato e disperso, e con tutta probabilità si pro- trarrà a lungo». Dall’altra lo studio CIBER - un que- stionario online che ha interrogato ricercatori in tut- to il mondo - sostiene in base ai risultati raccolti che «i social media hanno trovato una collocazione nel research workflow per molti accademici e stanno dimostrando la propria utilità» (2010: p. 16). Spostando l’attenzione sui fattori demografici, di- sponibili per il Regno Unito, l’adozione delle tecno- logie Web 2.0 appare come sempre più diffusa tra gli studenti di dottorato (JISC/British Library, 2011) e dei ricercatori nella prima fase della loro carriera (James et al., 2009), ma i dati relativi alla frequen- za d’uso dei nuovi strumenti riservano alcune sor- prese in favore delle vecchie generazioni di ricerca- tori (Procter, Williams e Stewart, 2010). Ancora più interessanti sono le ragioni che i ricer- catori dichiarano sulla probabile adozione di nuovi strumenti: «I servizi che hanno più probabilità di avere successo sono quegli strumenti in cui i ricerca- tori sono coinvolti nello scoprire, esplorare e realizzare nuove capacità e adattarle ai propri fini, in accordo con le culture e i contesti di ri- ferimento nei quali conducono il proprio lavoro» (Procter, Williams e Stewart, 2010: p. 8). Inoltre, laddove lavorare con colleghi di diverse isti- tuzioni può favorire l’adozione di nuove tecnologie (CIBER, 2010), la barriera più importante nell’ap- propriazione di questi tools emergenti è costituita dalla «mancanza di chiarezza sui concreti benefi- ci che potrebbero derivarne ai ricercatori» (CIBER, 2010: p. 25) e dal fatto che «pochi servizi hanno raggiunto la massa critica necessaria per manife- stare l’effetto network che ne stimola l’uso perva- sivo da parte di specifiche comunità» (Procter, Williams e Stewart, 2010: p. 7). Tuttavia, si deve tener presente che questi studi fo- calizzati sui media emergenti non riescono a resti- tuire una rappresentazione completa dell’adozione delle tecnologie nelle pratiche di ricerca perché spesso non mettono in relazione “vecchie” e “nuo- ve” tecnologie, trascurano studi sull’uso delle ICT nel decennio precedente il Web 2.0 (Fry, 2006) e omettono di considerare il ruolo giocato da ambien- ti e strumenti digitali istituzionali quali pagine per- sonali, digital library, account di posta elettronica, servizi informativi per la ricerca (per questi ultimi, Bitter e Muller, 2011). LE INTERVISTE: L’APPROPRIAZIONE DELLE ICT Come era prevedibile, nel campione esaminato l’email e la digital library (oltre ai comuni software per la produttività personale) sono stati indicati co- me gli strumenti di uso continuo da parte della to- talità dei ricercatori intervistati, senza distinzione di area disciplinare, fascia di età, attitudini personali o contesto di ricerca. Oltre a questi, però, numero- se altre applicazioni vengono nominate in quanto strumenti emergenti per un utilizzo nella vita quoti- diana e per specifiche attività di ricerca. La figura 1 suggerisce il livello di distribuzione di tecnologie non specifiche di ambiti disciplinari (sia dispositivi elettronici che applicazioni software) presso i ricer- catori partecipanti alle interviste. L’email è diventata nel tempo uno strumento multi- funzione che va ben al di là dell’originario meccani- smo della comunicazione uno-a-uno (Fisica, #1): la maggior parte dei ricercatori continua ad affidar- si a questo “vecchio” strumento sia per svolgere at- tività di networking che per lavori di editing colla- borativo nella produzione di saggi multi-autore. D’altra parte la digital library, abilitando un acces- 172 A. Esposito TD Tecnologie Didattiche, 20 (3) 173 so immediato ad una quantità enorme di studi pub- blicati, effettivamente rende i ricercatori più consa- pevoli di «quanto non abbiamo ancora letto (e for- se non riusciremo mai a leggere) su un determina- to argomento» (Area umanistica, #1) e contribui- sce a «migliorare l’argomentazione interdiscipli- nare, proprio attraverso la lettura incrociata delle ricerche» (Fisica, #1). Tuttavia, il panorama si fa più variegato quando in- tervengono scelte su ulteriori strumenti e viene con- siderato il rapporto tra i bisogni tecnologici nella vi- ta quotidiana e nel lavoro di ricerca. Così, un comu- ne registratore digitale audio/video diventa parte della vita quotidiana di un ricercatore di Scienze Sociali (#2), mentre una varietà di strumenti di uti- lizzo generale possono servire un ventaglio di fun- zioni specializzate per un altro ricercatore: «Uso un Kindle per leggere e-books; un Ipad, che supporta l’Unicode, per leggere i classici della letteratura greca. Con uno smartphone sincronizzo le attività tra casa e lavoro, incluso il tempo che trascorro consultando la digital li- brary e i contatti con gli studenti, se necessa- rio» (Area umanistica, #3). In alcuni casi però gli intervistati dichiarano di non usare né social network del tipo Facebook né smar- tphone perché non ne sentono la necessità e, anzi, denunciano la forte pressione commerciale che in- genera bisogni indotti, non giustificati da una reale esigenza. Tra gli strumenti di ultima generazione, senza dub- bio Skype risulta essere il favorito: viene comune- mente usato per moltiplicare le opportunità di in- contrare a distanza colleghi o dottorandi (Scienze sociali, #1, #2; Medicina #4), mentre in alcuni casi (Area umanistica #2; Medicina #3; Fisica, #2, #3) viene ritenuto molto utile per risolvere ve- locemente problemi quando un progetto collabora- tivo è in una fase di stallo o per rinegoziare decisio- ni all’inizio di una nuova fase di lavoro. Curare un blog di argomenti attinenti alla ricerca è invece un’attività scarsamente diffusa e non è nep- pure riconosciuta come un’attività raccomandabile, persino come mezzo per esercitare la scrittura ac- cademica da parte dei dottorandi: «Il metodo scientifico incorpora specifici vinco- li e strumenti che tu devi necessariamente ac- quisire prima di iniziare a costruirci sopra. Non puoi eludere tali prerequisiti. E potrebbe esse- re un rischio per gli studenti esporsi troppo pre- sto. Il rischio è quello di mostrare un approccio poco solido, poco scientifico» (Medicina, #3). Tuttavia, tra gli intervistati di Scienze sociali un pro- fessore associato (#3) gestisce un blog per condi- videre riflessioni sui propri progetti di ricerca e un dottorando (#1) contribuisce ad un blog collettivo: «Questo blog multi-autore è considerato una sorta di “vetrina” di alcuni filoni di ricerca svi- luppati all’interno del mio dipartimento. Ospita blog post strutturati come articoli di ricerca, commenti a quei lavori e a volte anche guest post. In un certo senso serve anche a fare net- working e a estendere i confini della nostra co- munità di ricerca» (Scienze Sociali, #2). Tra i ricercatori intervistati l’atteggiamento più co- mune rispetto alla scelta e ai pattern d’uso delle Figura 1. Livello di distribuzione di tecnologie non specifiche di ambiti disciplinari presso i ricercatori partecipanti alle interviste. tecnologie sembra dunque essere quello di un ap- proccio pragmatico e guidato dall’efficienza che questi mezzi possono imprimere alle attività: «L’uso e la scelta di un tool digitale è assoluta- mente funzionale ai miei bisogni di ricerca, al- le domande di ricerca e al campione di sogget- ti che devo studiare. Non importa quanto sia difficile lo strumento. Se può davvero aiutare e risponde alla situazione di ricerca, sono del tut- to disposta a metterci il tempo necessario per acquisirne il funzionamento… questa è la chia- ve di tutto» (Medicina, #3); Attributi quali velocità, completezza di informazio- ne (Area umanistica, #3) e facilitazione di prati- che esistenti (Scienze Sociali, #2, Medicina, #4) caratterizzano un modo di vedere le tecnologie co- me mezzi per risolvere problemi pratici. Questo at- teggiamento si trasforma facilmente in capacità di adattarsi a un nuovo strumento - ad esempio Drop- box usato per un progetto interdisciplinare - quan- do lo strumento fornisce una facilitazione a costo zero in termini di tempo. I canali “analogici” dei seminari e delle conferenze rimangono per tutti gli intervistati mezzi privilegiati (perché riconosciuti) della condivisione informale dei work in progress, e c’è chi rileva con decisione l’importanza della conoscenza interpersonale come prerequisito per avviare una collaborazione di ricer- ca (Medicina, #3). È un fatto che anche i pochi che fanno un uso intensivo degli ambienti di social net- working dichiarino che tali ambienti in effetti non contribuiscono davvero ad ampliare la propria co- munità di ricerca (Scienze Sociali, #3; Area uma- nistica, #3). Tuttavia, un sottogruppo di ricercatori (Scienze So- ciali, #3; Area umanistica, #3; #4) sembra esse- re più incline a sperimentare nuovi strumenti e allo stesso tempo a costruirsi un’identità accademica digitale attraverso una sofisticata strategia d’uso dei diversi mezzi di comunicazione. «Utilizzo parecchi tool e ambienti che sono so- lito classificare come tool “frequenti”, “accade- mici” e “personali” e che uso spesso in modali- tà “mobile” (tramite IPad, Blackberry) e per una varietà di obiettivi, quali la gestione di proget- ti, indagini online, blogging, microblogging, bo- okmarking, pianificazione di meeting. Trovo Twitter molto utile come “alimentatore di cono- scenza” che attinge ad una comunità interna- zionale: con questa funzione credo che sia più efficiente (almeno per me) rispetto ad altri so- cial network. Invece, in Facebook discuto argo- menti di ricerca, studi, opinioni personali, “vi- sioni del mondo” con miei pari ma anche con gli studenti. Su questi stessi temi il mio blog ospita riflessioni più personali, che trova una sua audience linkando i post su Twitter. Infine, uso Linkedin per attrarre nuovi contatti attorno ai miei impegni professionali extra-accademi- ci» (Scienze Sociali, #3). Altri preferiscono mantenere separate le proprie re- ti private da quelle di ricerca: «Succede che qualche ricercatore mi chieda di far parte del mio network in Facebook: tutta- via, se uno scambio informale di informazioni ha la probabilità di diventare una collaborazio- ne di ricerca preferisco spostarmi su altri stru- menti, come l’email o Skype, per approfondire la discussione in un ambiente più privato» (Area umanistica, #2). Tuttavia, l’atteggiamento esplorativo adottato dal singolo ricercatore non sembra essere così gratifi- cante in alcuni settori disciplinari: «Ho un profilo in molte di queste tecnologie emergenti, quali social network, siti di social bookmarking, social citation... ma finora non sono riuscita ad individuare alcun concreto be- neficio per il mio lavoro di ricerca. Per esempio, ho usato per un periodo CiteULike per scambia- re indicazioni bibliografiche. Ma mi sono presto resa conto che ben pochi classicisti hanno l’abitudine di mettere in comune indicazioni bi- bliografiche, e così la mia permanenza in quel- l’ambiente non ha avuto alcun valore» (Area umanistica #3). Tali ostacoli non scoraggiano comunque questa ri- cercatrice dall’impegno di curare una propria sepa- rata identità digitale (tramite pseudonimo) in so- cial network costruiti attorno ad interessi letterari, nei quali «posso giocarmi un ruolo differente che non ha niente a che fare con le mie responsabili- tà nel ruolo di ricercatore universitario» (Area umanistica, #3). In un altro caso, lo stato emergente del proprio am- bito disciplinare incentiva la collaborazione a di- stanza per una dottoranda in archeologia (digitale): «Prima di tutto al CNR - dove lavoro con una borsa di studio - vi è un intenso lavoro di team, che per esempio si manifesta attraverso l’uso di Google Docs per la produzione collaborativa di qualsiasi documento. Ma più importante an- cora è il fatto che nel nostro campo è vitale cercare nuovi contatti e collaborare a distanza con la comunità internazionale degli sviluppa- tori open source, per co-progettare ambienti di grafica e modellare strumenti che abilitano la costruzione di musei virtuali di siti archeologi- ci. Come “archeologi digitali” siamo ancora re- lativamente pochi e siamo aperti all’osserva- zione di altre esperienze, soluzioni, tipi di re- search output e cerchiamo tutto ciò scanda- gliando tutti i tipi di siti e di comunità sul Web» (Area umanistica, #4). Si può notare, invece, come nella fascia dei ricerca- tori senior ci sia un atteggiamento più disincantato rispetto a queste tecnologie emergenti: c’è chi sot- A. Esposito 174 tolinea come nelle scienze dure «l’impatto emotivo delle ICT sia già stato vissuto agli inizi degli anni Novanta» (Fisica, #1); altri fanno presente come le facilitazioni offerte dal Web 1.0 permettono da tempo di svolgere attività a distanza quali la discus- sione di progetti di ricerca e la redazione collabora- tiva di testi che questi nuovi mezzi così enfatizzati sbandierano come una loro prerogativa (Scienze Sociali, #2); altri infine rimarcano il fatto che le nuove generazioni alle prese con queste tecnologie “pronte all’uso” rischiano di perdere il controllo cri- tico sugli strumenti che utilizzano per fare e comu- nicare la ricerca (Area umanistica, #1). Infine, sull’idea del ricercatore digitale si rileva una divisione netta tra chi, nell’area umanistica in par- ticolare, non vede come appropriato l’attributo “di- gitale” associato alle proprie pratiche di ricerca e chi, nelle scienze dure, dà a questa “etichetta” un senso reso scontato dai decenni di utilizzo delle tecnologie informatiche. Tuttavia, alcune idee nuo- ve emergono: «Anche se lavoro in una disciplina classica e non vedo intorno a me molto interesse rispetto alla tecnologia, devo dire che io mi sento un di- gital researcher: sia perché tutti i miei stru- menti di lavoro sono digitali e sono in rete, e poi perché ho una frequentazione continua con un gruppo di sviluppatori per progettare insie- me nuovi strumenti» (Area umanistica, #3). «C’è un modo di pensare al digital researcher che ha a che fare con le nostre visioni del mon- do. In realtà l’insieme delle mie idee di ricerca è fortemente influenzato e continuamente ali- mentato da tutto ciò che viene condiviso in re- te, attraverso meccanismi digitali» (Scienze Sociali, #3). «Da una parte un digital researcher utilizza nuovi strumenti per modellare in collaborazio- ne nuovi metodi che ampliano la conoscenza di siti e reperti archeologici. D’altra parte un tale approccio abilita il ricercatore a pensare a modi nuovi ed efficaci per raggiungere un pub- blico non specializzato e metterlo a parte di un patrimonio culturale straordinario» (Area uma- nistica, #4). DISCUSSIONE La sezione precedente ha inteso offrire un rappor- to dettagliato delle esperienze personali e delle opinioni raccolte dai ricercatori alle prese con vec- chie e nuove tecnologie. Tuttavia è opportuno far presente che questi risultati vanno intesi come narrazioni di 14 singoli individui selezionati secon- do un metodo non probabilistico: non possono quindi essere considerati un campione rappresen- tativo delle pratiche tecnologiche correnti ed emer- genti nelle aree disciplinari prese in esame. Inoltre, limitandosi ad utilizzare lo strumento dell’intervi- sta, lo studio non fornisce quei dati di contesto che servirebbero a configurare le esperienze narrate come pratiche situate. Nonostante questi limiti, però, è possibile render conto di comportamenti prevalenti e di casi particolari che vanno a com- porre la “istantanea” che era l’obiettivo dichiarato di questo studio. I dati ricavati dalle interviste realizzate illustrano un quadro complessivo delle pratiche di ricerca nel quale l’appropriazione delle tecnologie da parte dei singoli ricercatori sottende un approccio funziona- le e improntato all’efficienza, e rivela una scarsa diffusione e un cauto interesse verso gli strumenti Web 2.0 per supportare le attività di ricerca, in li- nea con i risultati di studi empirici su larga scala. I dati suggeriscono alcune differenze nelle culture delle diverse aree disciplinari riguardo all’interpre- tazione di pratiche digitali nella ricerca: si veda ad esempio come l’uso del blog venga visto dagli in- tervistati di scienze sociali come luogo di elabora- zione di nuova conoscenza e/o come strumento di disseminazione di ricerche in corso, mentre in am- bito scientifico può persino essere percepito come un rischio per i dottorandi, impegnati nell’acquisi- zione graduale e gerarchica di una robusta meto- dologia scientifica. Tuttavia, alcuni ricercatori nel campione sono por- tatori di un approccio eclettico e perlopiù auto-le- gittimante nei confronti delle nuove tecnologie del- la comunicazione, nonostante i rispettivi contesti si mostrino piuttosto indifferenti verso le potenzialità dei nuovi strumenti/ambienti. Considerando come quadro di riferimento il conti- nuum Visitors/Residents (White e Le Cornu, 2011), l’appropriazione individuale delle tecnologie della comunicazione, la selezione degli strumenti e gli usi più ricorrenti rilevati tra i ricercatori intervistati evidenziano un’attitudine più vicina al modello Vi- sitors che a quello Residents. Infatti la maggioran- za dei ricercatori, di qualsiasi area, tende a conce- pire le tecnologie come strumenti da utilizzare se e quando servono, per determinate funzioni, e il Web come “rimessa degli attrezzi” più che come spazio sociale. Nuovi strumenti e ambienti vengono intro- dotti qualora questi abbiano una chiara utilizzazio- ne e siano in grado di migliorare l’efficienza di pra- tiche esistenti: il caso tipico è la popolarità di Sky- pe per supportare l’interazione nei meeting a di- stanza. Tuttavia, una piccola minoranza di ricerca- tori mostra di avere un atteggiamento più esplora- tivo verso le nuove tecnologie e di fatto manifesta una combinazione di engagement sia come Visitors che come Residents, attraverso la costruzione di una propria identità digitale in vari social media. Ma vi possono essere tensioni tra questo individua- le impegno online e le più comuni pratiche digitali all’interno dell’area disciplinare di riferimento. A questo proposito tre casi emergono più chiaramen- TD Tecnologie Didattiche, 20 (3) 175 A. Esposito 176 te - due nell’area umanistica e uno nelle scienze so- ciali - indicativi del tipo di autonomia di comporta- menti digitali che il singolo esprime rispetto al con- testo: 1) il caso di un ricercatore di scienze sociali dalla carriera consolidata che afferma di trarre vantag- gio dallo sviluppare nei social networks parte del proprio discorso accademico. La sua scelta è quella di autolegittimare il proprio impegno onli- ne, combinando le attività di elaborazione di “vi- sioni del mondo” (partecipata anche con gli stu- denti) e di networking con la costruzione di un nuovo ruolo come intellettuale pubblico nel so- cial Web. 2) Il caso di una giovane ricercatrice di area umani- stica che si rende conto di essere una “pionie- ra”(riguardo al tipo di online engagement) nella propria disciplina classica, e sceglie di giocarsi un altro tipo di identità intellettuale, focalizzata sulla propria expertise in letteratura e nettamen- te separata rispetto alle “tracce” di identità digi- tale come ricercatore universitario. 3) Il caso di una studentessa di dottorato in “ar- cheologia digitale”, che si divide tra il contesto dell’università - legato alla tradizione antichisti- ca - e quello del CNR, che di fatto le consente e le richiede di assumere un habitus di lavoro col- laborativo e di intraprendere azioni di networ- king nelle reti digitali. Queste azioni costituisco- no allo stesso tempo modalità di produzione e di distribuzione di conoscenza e hanno la finalità di costruire collettivamente metodo, strumenti e prodotto finale di una disciplina tesa a ri-crearsi nel digitale. Nella terminologia di Weller, se tutti e tre questi di- gital scholar mostrano un modo di essere digitale che è inerente al proprio essere connessi in rete, so- lo il ricercatore di scienze sociali - dato il tipo di di- sciplina di cui si occupa e la propria posizione acca- demica consolidata - sembra in grado di assumere il ruolo di digital scholar prefigurato da Weller, ovve- ro quello di qualcuno che produce e condivide la propria expertise nelle reti digitali, prescindendo dall’affiliazione istituzionale. L’apprendista ricerca- trice in archeologia digitale appare d’altra parte co- me la figura maggiormente favorita dal proprio con- testo di riferimento, in transizione e disperso anche dal punto di vista della collocazione istituzionale. Sarebbe interessante capire come in futuro questa situazione di “limbo” potrebbe trasformarsi in nuovi tipi di pratiche di ricerca formalmente riconosciute, per esempio attraverso la realizzazione di un artefat- to digitale da presentare come tesi di dottorato. CONCLUSIONI Le interviste presentate in questo articolo hanno for- nito una panoramica delle pratiche digitali di un pic- colo campione di ricercatori affiliati ad un’unica uni- versità italiana. Utilizzando la provvisoria definizio- ne di digital scholar elaborata da Weller (2011) co- me strumento di sintesi, si può affermare - sulla ba- se dei dati raccolti - che la maggioranza dei ricerca- tori intervistati risulta essere tradizionalmente digi- tal, moderatamente networked e occasionalmente open (sebbene questo aspetto non sia stato trattato in questa sede). In altre parole, i ricercatori dimo- strano un uso consistente ed efficiente delle “vec- chie” tecnologie, che sembrano soddisfare bene tut- ti gli attuali bisogni di comunicazione e di distribu- zione del processo e dei prodotti dell’attività di ricer- ca, entro i vincoli formali del sistema di accredita- mento di tale lavoro. La maggior parte degli intervi- stati sembra non vedere nessun chiaro beneficio nel passare a nuovi mezzi tecnologici, in mancanza di informazioni precise, di supporto istituzionale e sen- za un riconoscimento di qualche tipo da parte della propria comunità di ricerca. Tuttavia, ciò che si evi- denzia con forza da questo campione di intervistati è la distanza tra una late majority (Rogers, 1995) di ricercatori che non utilizzano e sono sostanzialmen- te indifferenti verso possibili nuovi canali di comuni- cazione e pubblicazione e i pochi early adopters (ib.) che esplorano usi sofisticati di una varietà di tecnologie, passando dal livello di utilizzo personale a quello accademico e professionale, talvolta sepa- randoli e altre volte mescolandoli. In effetti i casi isolati di early adopters mostrano un atteggiamento del tipo “digital-in-quanto-newor- ked”, caratterizzato da un’intensa frequentazione del social Web come luogo dove costruire, espan- dere e rinegoziare la propria identità digitale, con un approccio auto-legittimante rispetto ai tradizio- nali modi di produzione e distribuzione della cono- scenza. Questi esempi emergono nelle aree umani- stica e delle scienze sociali, dove una cultura del la- voro di ricerca di tipo più individualistico (Fry, 2006) abilita un uso prettamente personalizzato della tecnologia; d’altra parte, proprio la scarsa pro- pensione alla divisione del lavoro in questi ambiti disciplinari non facilita la condivisione di nuove pratiche digitali nella propria comunità di ricerca. Sembra qui riproporsi quel fenomeno definito da Tony Bates (2005: p.171) dei Lone Rangers, in ri- ferimento a quei docenti pionieri dell’e-learning nei contesti universitari, che rischiano di rimanere iso- lati nelle loro sperimentazioni. Tuttavia, a differen- za dei Lone Rangers dell’e-learning, i pionieri delle pratiche di digital scholarship intervistati in questo studio sembrano in grado di trovare autonomamen- te - almeno in questa fase esplorativa - sia un inte- resse specifico che delle forme di gratificazione per sperimentare nuove forme di comunicazione e di costruzione del proprio profilo accademico. Se da una parte gli studi sugli usi effettivi del social Web da parte dei ricercatori sono ancora in nume- ro troppo limitato per offrire un quadro di riferimen- TD Tecnologie Didattiche, 20 (3) 177 to attendibile sul fenomeno, dall’altra è possibile in- travvedere una linea di sviluppo nella diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione nei contesti accademici della ricerca. Ci si riferisce all’utilizzo dei social media per rag- giungere nuove forme di impatto dell’attività di ri- cerca, sia nella stessa comunità accademica che nel più ampio consesso sociale. Il social Web apre infatti nuovi spazi di intervento personale che con- tribuiscono a creare inedite relazioni tra le dimen- sioni della carriera accademica. Si veda ad esem- pio la crescente convergenza tra le dimensioni del “prestigio personale” e del “fare rete”: «Se un tem- po gli accademici confidavano nelle conoscenze personali tra colleghi per rendere noto il proprio la- voro e per incrementare il numero di citazioni, oggi ciò che conta è quanto sia facile rintracciare il lavo- ro di uno studioso e quante versioni dello stesso la- voro si trovano là fuori in canali diversi, a disposi- zione di altri accademici e ricercatori» (LSE Public Policy Group, 2011: p. 45). Il valore aggiunto che i nuovi media della comuni- cazione possono offrire alla visibilità e alla diffusio- ne della propria attività di ricerca costituisce infat- ti una motivazione trasversale ai vari settori di ri- cerca e tipologie di online engagement, poiché prescinde sia dalla propensione personale ad esplorare nuove tecnologie che dall’adesione ideo- logica ad una più estesa cultura della condivisione dei contenuti, dei metodi e delle pratiche di colla- borazione. Una tale linea di sviluppo implica in ogni caso che le istituzioni universitarie si impegnino ad offrire - in particolare nel percorso di apprendistato dei fu- turi ricercatori - quegli strumenti di informazione, supporto e di regolamentazione la cui mancanza sembra essere l’ostacolo principale nell’adozione dei social media da parte dei singoli ricercatori. Bates A. W. (2005). Technology, e-learning and distance education, (2nd ed.). Abingdon, UK: Routledge. Bitter S., Muller A. (2011). 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